A settant’anni suonati
(è proprio il caso di dirlo) in genere è il momento di fare bilanci e,
soprattutto per un artista, quello di rivedere il proprio percorso in
un’ottica più riflessiva, per non dire introspettiva. È questo il motivo
per cui molti, incluso Thurston Moore, a lungo compagno di palco e di
vita di Kim, in età “adulta” hanno dovuto soffocare i loro bollenti spiriti
ed acquietarsi al vibrare rassicurante di una chitarra acustica. Tanti
musicisti, non certo la nostra bella newyorchese sonica che con questo
The Collective, ben cinque anni dopo l’uscita dell’ottimo
No Home Record, si rimette al centro della scena underground d’oltreoceano
a lungo dominata dai suoi Sonic Youth, più tosta che mai, dimostrando
una volta ancora di essere quella più abrasiva, modernista ed intransigente
del quartetto.
Colpisce certamente l’inestinguibile attitudine sperimentale di Kim
Gordon, ma ancor di più la forza di rimanere “alternativa” e rumorosa,
in maniera elegante e credibile, mettendo a frutto la straordinaria capacità
di leggere l’attualità con gli occhi di una ventenne e con lo spirito
critico di una signora che dalla vita, sia per ragioni anagrafiche che
per frequentazioni, ha indubbiamente imparato parecchio. Ed è il suo rigore
stilistico, la disinvoltura e la classe con le quali interpreta il suo
ruolo che la fanno assurgere, a pieno titolo, a contemporanea icona (o
anti-icona) rock. Qualcuno potrà pure dubitare sull’immutata efficacia
comunicativa dei suoi progetti (e non ci riferiamo solo alla musica, visto
il suo amore per le arti figurative) ma nessuno è autorizzato a metterne
in discussione la valenza estetica basandosi sul semplice presupposto
che ad una certa età bisogna farla finita con i feedback assordanti, con
l’anarchismo, con le astrusità avanguardiste, a maggior ragione se, come
nel nostro caso, la gloriosa anzianità di servizio diventa un meraviglioso
antidoto vintage alla deriva digitale.
Il furore del punk, il noise, l’industrial, la no wave, ogni ardimento
iconoclasta maturato nel corso della sua carriera, Kim lo permea di nuove
risorse, di nuova tecnologia, facendolo assurgere al rango di nuovo linguaggio,
del suo nuovo linguaggio, in cui persino la trap music e l’autotune diventano
qualcosa di funzionale ad un progetto, comprensibile, in ultima analisi,
non solo ai rapper e agli ostaggi dei circuiti informatici. Lei, del resto,
è e vuole essere personaggio del suo tempo, schiava, come tutti, dei computer
e dei telefoni. Tant’è che The Collective non è altro che il nome
di un suo dipinto, esposto alla 303 Gallery di New York lo scorso anno,
che sulla tela presenta 27 fori grandi quanto un iPhone e svariati spazi
vuoti, tra un buco e l’altro, a ricordare ogni sinapsi che l’utente ha
fritto guardando clip di parkour o inseguendo lo scorrimento infinito.
Il racconto parte da qui, dall’idea di ragionare sul mondo, sull’umanità
sopraffatta dal delirio cibernetico, dal capitalismo sfrenato, dalla necessità
di esorcizzare quotidianamente la morte.
E lo scenario non può non essere cupo, angosciante, claustrofobico. Anche
quando Kim si mette a declamare il contenuto della propria valigia nell’atto
di prepararla prima di un imminente viaggio (Bye
Bye), si scorge l’alienazione di chi è ormai intrappolata negli
schemi, allo stesso modo di quando indulge con indolenza sulla vacuità
dell’universo metropolitano (I Don’t Miss My Mind) o, ancora, quando
si esibisce in una delirante evocazione dei ricordi (The Candy House).
Sono le esperienze della sua precedente vita musicale a fondersi con la
follia trascendentale di Mike Gira, con la cibernetica voodoo di Tricky
e con il passo alienante dei Throbbing Gristle, alla ricerca di quella
verità che, in un’epoca in cui niente appare per come in realtà è, rappresenta
il gesto più rivoluzionario, lo spunto intellettuale più geniale per destabilizzare
un sistema fondato interamente sullo sviluppo di un parallelo universo
dominato dalla paranoia, dal senso di inadeguatezza, da distorsioni sentimentali
ed estetiche.
Registrato con l’aiuto di Justin Raisen, The Collective sboccia
dal caos opprimente di Los Angeles e si pone come manifesto estraniante,
duro e confuso di un’era che già da un po' ci pone devastanti interrogativi
sul futuro prossimo.