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Father John Misty
Mahashmashana
[Bella Union 2024]

Sulla rete: fatherjohnmisty.com

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di Nicola Gervasini (30/12/2024)

Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque, le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già consumate, e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel suo ormai abituale e forse definitivo alias Father John Misty quando ormai sembra già essere stato detto tutto. Riassumendo, se non conoscete il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che vi potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento, è talvolta geniale, ma è sostanzialmente pretenzioso”.

Facciamo un passo indietro allora. Quindici anni fa proprio su queste pagine scrivevo del disco Year in the Kingdom, ottava uscita in pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non avevo idea ai tempi che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico, ma da scarno homemade freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi show. Un percorso in crescendo tra album belli e complessi, in cui la forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato successivamente agli anni 70. Uno sforzo produttivo enorme che ovviamente gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo affiancano Drew Erikson e Jonathan Wilson).

Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della sua arte. Bene perché conosco pochi artisti moderni in grado di maneggiare con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica, melodie pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco pochi artisti moderni in grado di fare un grosso pasticcio come la detestabile Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere, arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova la nostra pazienza. Prendere o lasciare, negli otto lunghi brani che compongono questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She Cleans Up ad esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo, accettando che anche un brano che poteva tranquillamente vivere solo di voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini e sax suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i nove minuti philspectoriani della title-track è un colpo d’autore, ma anche una evidente spacconata.

E che dire della magnificenza della quasi disco-dance I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete trovarci tutto, la yacht music, i sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees volendo. Il finale di Summer’s Gone sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui pare di vedere il suo sorrisetto sardonico mentre pensa “voglio vedere tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma, quest’uomo è seriamente bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche un po’ come delle serissime prese in giro.



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