Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque,
le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già consumate,
e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel
suo ormai abituale e forse definitivo alias Father John Misty quando
ormai sembra già essere stato detto tutto. Riassumendo, se non conoscete
il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che
vi potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento,
è talvolta geniale, ma è sostanzialmente pretenzioso”.
Facciamo un passo indietro allora. Quindici anni fa proprio su queste
pagine scrivevo del disco Year in the Kingdom, ottava uscita in
pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio
J. Tillman alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di
primo livello, una strategia discografica e i mille buoni/cattivi consigli
che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non
avevo idea ai tempi che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto
che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico, ma da scarno homemade
freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione
moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi
show. Un percorso in crescendo tra album belli e complessi, in cui la
forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti
altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato
successivamente agli anni 70. Uno sforzo produttivo enorme che ovviamente
gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo affiancano
Drew Erikson e Jonathan Wilson).
Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della
sua arte. Bene perché conosco pochi artisti moderni in grado di maneggiare
con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica,
melodie pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco
pochi artisti moderni in grado di fare un grosso pasticcio come la detestabile
Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere,
arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova
la nostra pazienza. Prendere o lasciare, negli otto lunghi brani che compongono
questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She
Cleans Up ad esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo,
accettando che anche un brano che poteva tranquillamente vivere solo di
voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini
e sax suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i nove minuti philspectoriani
della title-track è un colpo d’autore, ma anche una evidente spacconata.
E che dire della magnificenza della quasi disco-dance
I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete trovarci
tutto, la yacht music, i sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees
volendo. Il finale di Summer’s Gone
sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui
pare di vedere il suo sorrisetto sardonico mentre pensa “voglio vedere
tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare
un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma,
quest’uomo è seriamente bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche
un po’ come delle serissime prese in giro.