È meglio togliersi subito ogni dubbio: la scelta
di Amelia McMahon di mantenere quel cognome, nato negli anni Ottanta dal
sodalizio con Will Rigby, batterista dei Db’s, ha significato per lei
l’appartenenza a un preciso mondo rock underground di New York, sorto
alla fine del decennio precedente e che per diverso tempo Amy stessa ha
frequentato con progetti e collaborazioni che l’hanno vista muoversi tra
band vere e proprie, come Last Roundup e The Shams (un piccolo culto),
nonché attraverso preziosi dischi solisti. Chiuso quel matrimonio, l’appellativo
di Amy Rigby è rimasto a contrassegnare una direzione musicale
e un universo sonoro che da quella scena proveniva e da lì voleva ripartire.
Nel frattempo lei ha fatto il giro del mondo, fedele alla sua immagine
un po’ “punk”, si è ricollocata prima a Nashville e poi in Inghilterra,
dove peraltro è sbocciata la sua seconda unione, se possibile ancora più
fruttuosa da un punto di vista artistico, con un vero outsider del luogo,
il folletto inglese Wreckless Eric, la cui filosofia a bassa fedeltà
e l’animo indipendente hanno trovato un completamento ideale in Amy. Negli
anni sono tornati in America, hanno pubblicato anche alcuni album in duo,
ma la Rigby non si è dimenticata di rimettere fuori la testa con dischi
a firma propria, opere che sono state spesso apprezzate dai colleghi,
qualche volta a caccia di una buona canzone da reinterpretare, assai più
raramente hanno invece ottenuto un successo che non fosse ad esclusivo
uso degli addetti ai lavori. È il destino di musicisti come Amy Rigby,
songwriter dalla penna acuta, ricca di riferimenti personali che tramutano
poi in citazioni continue della società e della cultura pop.
Non fa eccezione questo Hang in There With Me, nuovo lavoro
che interrompe un silenzio di sei anni (The Old Guys del 2018,
seguito da una raccolta di vecchie demo, A One Way Ticket to My Life)
tornando sui passi di un folk-rock essenziale, volutamente non raffinato,
dove Amy e il compagno Wreckless Eric curano ogni suono e strumento nel
loro studio di registrazione. Ballate elettro-acustiche dall’animo garagista
e fortemente sixties nella concezione delle melodie compongono una breve
scaletta che non smussa gli spigoli e alterna momenti di rapimento con
altri di maggiore rabbia, anche dal punto di vista sonoro: Hello-Oh
Sixty e Too Old To be So Crazy
assestano i primi due punti e siamo già dentro questo mondo con chitarre
che sprizzano colori crudi e sgargianti al tempo stesso.
Ispirata da un periodo durissimo segnato dalla perdita dell’anziano padre,
del caro amico cantautore David Olney e più in generale dall’isolamento
vissuto da tante persone per le conseguenze della pandemia, Amy Rigby
risolve la questione dando sfogo a passaggi fragili e fanciulleschi come
O Anjali e The Farewell Tour,
avvicendati con brusche sterzate folk rock con qualche sfilacciamento
garage blues come in Dylan in Dubuque (riferimento
a un concerto un po’ disordinato del divino Bob tenutosi in Iowa negli
anni Novanta) e Bangs, o persino interferenze acid rock nelle più
gracchianti Bricks e Heart is a Muscle, che trascinano il
disco in un grazioso finale, Last Night’s Rainbow,
dove sembra di sentire una coda inedita di ciò che fu la stagione passata
sotto il nome di Paisley Underground.