Ce l’ha un po' il piglio dell’asceta Stephen Lawrie,
padre padrone dei Telescopes, band inglese sulla scena oramai da
oltre 35 anni. Non è un caso quindi che pian piano abbia abiurato al dream
pop degli esordi per diventare profeta divulgatore di una esclusiva filosofia
cosmica minimale che oltrepassa la dimensione planetaria e travalica la
condizione umana. Halo Moon rappresenta il suo ennesimo
e forse più deciso tentativo di tradurre in musica i suoi sforzi contemplativi,
di assemblare un compendio atto a trascendere la realtà sensibile. Impossibile,
infatti, non cogliere sin dalle prime tracce questo sguardo che punta
oltre i confini dello spazio visibile. Tutto scorre molto lento e inesorabile,
morbosamente e metodicamente ipnotico.
Non è materia per tutti, senza dubbio alcuno. Occorre avere una certa
predisposizione per i ritmi bradicardici, per le danze notturne, per le
preghiere siderali. Ma è anche vero che, una volta piegatisi al dilatare
assillante dei brani ed al progettuale reiterarsi degli scenari, si può
facilmente restare colpiti dal candore pulsante e circolare di queste
marce fluttuanti in assenza di gravità. Entrati, insomma, nel necessario
mood si dovrebbe riuscire a cogliere l’essenza di questo che, per chi
ama cimentarsi in funanboliche catalogazioni, si può definire "dark
electro psyco space rock". Questo perché le ambientazioni sono cupe,
perché i brani hanno un passo lisergico, perché lo sguardo è sempre rivolto
alla profondità dell’universo e perché l’itinerario si snoda all’interno
di un circuito chiuso, efficace proprio per la ripetitività magnetica
dei suoni.
Ci piace Shake it All Out che rotola,
sorniona ed acida, come una liturgia svogliata. Stesso fascino indolente
della fatalista Nothing Matters, che
rievoca i canoni shoegaze a lungo sfruttati dalla band. Along the Way
e This Train Rolls On, lugubri e rituali, stazionano più dalle
parti degli Swans, mentre Come Tomorrow è una sorta di inno modellato
sugli opulenti cerimoniali di Nick Cave o Leonard Cohen, dei quali però
non possiede affatto la potenza evocativa. Non male neppure la criptica
For the River Man, in cui un’armonica e qualche effetto luccicante
servono a rivitalizzare lo scenario, allo stesso modo della suggestiva
title track.
Detto questo, messo in chiaro che il lavoro merita certamente apprezzamenti,
c’è però un aspetto che non convince appieno. Se è vero che il genere,
piaccia o meno, richiede un’introflessione ed un’attitudine a muoversi
tra le ombre, è altrettanto vero che non sempre il reiterarsi ciclico
dei suoni riesce unitariamente nell’intento di condurre in una dimensione
“altra”. A dirla tutta, il progetto non pare, per assurdo, sufficientemente
coraggioso. Il disco avrebbe potuto funzionare meglio se Stephen, alla
stregua di un Michael Gira o di un Alan Vega, fosse rimasto coerente con
il suo indugiare nel buio esistenziale che evidentemente lo ossessiona.
In altre parole ancora, Halo Moon è tetro ma non abbastanza,
seduce ma non abbastanza, è angoscioso ma non abbastanza, è avvolgente
ma non penetra così in profondità, è ipnotico ma non estatico, dovrebbe
“irritare l’anima” ma banalmente si “arrende all’amore”.