La Western Vinyl è una piccola etichetta, con sede in quel di Austin, Texas, fra
le più singolari, intraprendenti e varie (per quanto riguarda il carnet delle
proposte) di tutto il panorama indipendente americano. Nel suo catalogo, in mezzo
a power-pop e guastatori elettronici, distese ambient e glaciali programmazioni
post-rock, figurano da qualche anno gli Ola Podrida di David Wingo, forse
meglio noto come compositore delle colonne sonore di alcuni film di David Gordon
Green e Jeff Nichols. I due principali segmenti dell'attività di costui - l'estensione
di scores e la conduzione di una band - erano sembrati, fino a oggi, in pratica
sovrapponibili, entrambi sintonizzati sulla morbida lunghezza d'onda di un dream-folk
cameristico, rilassato, soffice e fondamentalmente acustico, una sorta di incontro
fluttuante tra le melodie dei Kingsbury Manx e le desolate mappe agresti dei mai
troppo lodati Idaho.
Ghosts Go Blind, terzo album degli
Ola Podrida, cambia almeno in parte le carte in tavola. Non tanto per le liriche,
di nuovo deputate a evocare i profili di esistenze ai margini dove le ombre sopravanzano
di gran lunga le luci, a suggerire addii, finali sconsolati e chiose improntate
a un'inesorabile amarezza, a trasmettere il senso vivo e doloroso di una disperata
estenuazione. Né, d'altro canto, per la comunque benvenuta decisione di sfruttare
i collaboratori Colin Swietek (chitarre), Matt Clark (basso) e David Hobizal (batteria)
non alla stregua di semplici comprimari relegati sullo sfondo, ma come una vera
band, densa, spregiudicata e compatta sia nella solenne scalata elettrica di
Washing Away, sia nello spoglio sermone unplugged di Fumbling
For The Light (quest'ultima contrassegnata, sul finire, da un assolo
di sei corde di natura squisitamente younghiana). Il reale cambiamento di Ghosts
Go Blind, e la sua efficacia, sta nel cambiamento dell'attitudine di Wingo, qui
occupato come mai prima d'ora nel forzare i limiti della propria scrittura, nel
cercare la palingenesi dello stile in taglienti aperture quasi punk (Speed
Of Light) e nell'indie-rock in chiave emo dei Texas Is The Reason (Not
Ready To Stop), in sorprendenti traduzioni degli Yo La Tengo più folkie (The
Notes Remain) e in spassosi richiami all'epopea dei primi REM (Staying
In).
Non pensiate però a un album mancante di coesione o troppo sbilanciato
sul versante delle peregrinazioni sonore. A tenere insieme tutte le suggestioni
di Ghosts Go Blind, peraltro riassunte con esattezza dai rintocchi elettroacustici
di una title-track memorabile e spettrale (dato il titolo, non poteva essere altrimenti),
provvedono la voce assonnata di Wingo, assimilabile a quella di un Jason Molina
meno tormentato e più riposto, le atmosfere rarefatte e la proverbiale melanconia
dei testi, talmente coerenti, nel loro continuo insistere su congedi bruschi,
distacchi emotivi e profonde distanze sentimentali, da richiamare quei tramonti
che il ferrarese Giorgio Bassani diceva illuminati da "lontane lampade sepolte".
Ghosts Go Blind procura l'effetto di quelle lampade: non sempre si ha voglia di
ricorrervi, ma in certi momenti (voi sapete quali), è un conforto sapere di poterle
accendere.