File Under:
An easy ride di
Nicola Gervasini (15/10/2014)
Si
fa un grande errore ad immaginare Will Oldham, alias Bonnie Prince Billy,
come un solitario eremita dedito ad una autoreferenziale produzione in massa di
materiale folk da camera, o come un eroe del tutto sprezzante delle più elementari
regole del mercato discografico. Billy infatti sa benissimo quando è il momento
di concedersi al pubblico, nonostante rimanga ancora oggi indiscusso maestro di
filosofia indipendente. E così, dopo una lunga serie di produzioni disordinate
e del tutto invendibili se non al suo piccolo ma affezionato seguito (dal 2009
ad oggi, all'indomani dell'acclamato Beware,
si contano due album solisti, tre album in coabitazione con altri artisti, e ben
otto EP), Billy torna con Singer's Grave a Sea of Tongues ad una
produzione precisa e decisamente non ostica o ostile anche ad un pubblico meno
avvezzo alle sue stravaganze.
Il disco anzi si pone come terzo tardivo
capitolo di una ideale trilogia iniziata nel 2008 con lo straordinario Lie
Down in The Light, e proseguita con l'altrettanto riuscito Beware.
Un trittico di album in cui Oldham ha adattato il proprio songwriting ad un sound
da outlaw di Nashville da metà anni settanta, con pedal steel suadenti (There
Will Be Spring), violini taglienti (la straordinaria Quail
And Dumpings), cori (Old Match) e ariose e malinconiche ballatone
country (We Are Unhappy, Whipped).
Brani molto spesso già editi (la maggior parte proviene dal disco Wolfroy Goes
to Town del 2011), ma qui riproposti con nuovi scintillanti arrangiamenti, e già
l'operazione di re-make la dice lunga sulla natura del progetto. Niente che suoni
convenzionale ovviamente, lo stile di Bonnie Prince Billy resta inconfondibile
nel suo stralunato marchio di fabbrica, anche quando cavalca sentieri che potremmo
(con non poco coraggio) definire "mainstream". Ma è indubbio che questo album
sia un suo modo per riconciliarsi con i fans persi per strada con gli ultimi ermetici
album, forse non esaltanti solo per chi non ha avuto la pazienza di ascoltarli,
ma innegabilmente usciti in una veste produttiva poco accattivante.
A
essere severi addirittura si potrebbe notare come a livello di scrittura qui Billy
abbia scelto solo le vie più elementari, finendo magari per impantanarsi in qualche
brano a cui manca l'intensità dei giorni migliori (It's Time To Be Clear),
ed in generale il disco manca l'obiettivo di eguagliare i due più riusciti predecessori.
Ma resta il gran piacere di sentirlo alle prese con brani semplici e lineari come
Mindlessness o l'iniziale Night
Noises. Le zampate da grande ci sono, come l'oscura So Far And Here
We Are o la title-track che chiude l'album, ma sono pronto a scommettere che,
vista l'orecchiabilità di tutti i brani presenti, molti di voi sceglierebbero
altri brani per la propria compilation dell'anno. Proprio come succede ai dischi
"facili", termine che per Bonnie Prince Billy potrebbe sembrare quasi un insulto,
se non fosse che in questo caso lui stesso lo riterrà un gran complimento.