File Under:soulful
american music di
Fabio Cerbone (01/09/2014)
Una
sceneggiatura degna di un racconto di Raymond Carver, America disperata che avrebbe
potuto mettere in scena Robert Altman, e invece pare sia tutta la verità, nient'altro
che la verità. Colpisce la biografia di Christopher Denny, anche nei suoi
più scontati luoghi comuni, è un'introduzione perfetta alla sua musica, alle sue
teatrali e romantiche ballate imbevute di profumi gospel e fragranze country soul,
ma mai banalmente assopite su quello stile tradizionalista che in un primo momento
le potrebbe descrivere. Il fatto è che la sua musica è troppo viva e la sua voce
troppo tremula e sincera per essere liquidata come un altro songwriter in circolo
per i campi dell'Americana. Tim Putnam, boss della Partisan, lo ha pescato in
un club di New York nel 2006 e se ne è innamorato, ma ci ha messo sette lunghi
anni prima di ripulire il ragazzo da cima a fondo e mettergli le chiavi in mano,
passando per la bellezza di tre diverse sessioni di registrazione, arrivando infine
agli esiti fortunati di If The Roses Don't Kill Us (bellissimo titolo).
Tanto tempo è passato dall'esordio in Age Old Hunger, promessa naufragata
in un mare di errori e tragedie umane, un matriomonio fallito, dipendenze dall'alcol
e droghe prescritte per curare le ferite e diventate poi la sua condanna. Un cammino
spietato quello di Denny, già nel suo nativo Arkansas: a dodici anni gli zii lo
adottano, portandolo fuori da una vita familiare non esattamente idilliaca, il
solo ricordo buono quello del nonno che gli insegna i primi rudimenti sulla chitarra.
Tutte le scelte sbagliate arrivano di conseguenza, anche se lui non abbandona
mai l'idea di una rock'n'roll band, viaggiando con alcuni musicisti prima in California
e poi a New York. Ad un passo dal crollo fisico e morale giunge però la forza
di darsi una ripulita, quella definitiva si spera. Nuova vita e nuovo disco dunque,
che è un mezzo miracolo: canta il suo dolore nel singalong di Happy
Sad il nostro Christopher, semplice, solare "canzoncina" per chitarre,
banjo e trombone che sembra riassumere il senso catartico di tutto l'album (I
got a song, it's happy and sad/ part of it is good, part of it is bad) e da quel
momento escono il tormento e la felicità del suo fare musica.
Una voce
dal timbro delicato, passionale e quasi femminile, lo spettro di un Roy Orbison
più agreste (Jimmie Dale Gimore? Qualche somoglianza c'è...) e dell'Elvis
del post '68 tornato alle sue radici, Christopher Denny invoca la spiritualità
incandescente del southern soul e la verità della country music in God's
Height e Our Kind of Love, mettendo
insieme fiati e steel guitar, voci da Muscle Shoals e ricami commoventi che lui
dice di avere imparato da Lefty Frizell, uno dei suoi eroi. Gli crediamo sulla
fiducia, se poi i risultati sono rivelazioni quali la toccante ballad pianistica
Wings, una Million
Little Thoughts che, introdotta da un grondante organo chiesastico,
possiede l'epica del migliore Neil Diamond, senza tralasciare naturalmente i fantasmi
del citato Orbison sparsi in lungo e in largo, magari cominciando dalla trepidante
Watch me Shine.
Prodotto dal batterista degli Asleep at the Wheel
David Sanger con uno stuolo di solidi musicisti del giro roots texano (tra
gli altri Glen Fukunaga, Cindy Cashdollar e Marty Muse) ad affiancare i fidati
collaboratori di Denny, il chitarrista PJ Herrington e il pianista Jay Reynolds,
If The Roses Don't Kill Us è un autentico giubilo di american music, tra la più
sincera e trasparente ascoltata di questi tempi: intensa e piena di contraddizioni
come il suo cantore, emozionale come richiede il copione, si immerge nell'ardente
spirito sudista di Love Is a Code Word e Some
Things, negli spasimi country&soul di Man a Fool
e Radio, fra il leggero volteggiare nella campagna della Lousiana
con la stessa title track, tutte trascinate da accoglienti cori femminili, pianismo
blues e chitarre dai tignosi accenti memphisiani. Una bella storia di redenzione.