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Ray's sixties dreams di
Fabio Cerbone (06/05/2014)
Centellinando
con regolarità le sue uscite discografiche, un disco ogni due anni circa, Ray
Lamontagne è sempre apparso come un musicista accorto nel coltivare il suono
che aveva in testa, una caratteristica che lo ha reso uno degli autori più importanti
dell'universo rock tradizionale di quest'ultimo decennio. Passato per il bagno
roots purificatore di God Willin' & the Creek Don't Rise - il naturale compimento
di un autore che da Van Morrison e Stephen Stills come stelle polari approdava
al country e alle radici blues - era logico e anche legittimo attendersi da lui
un cambio di rotta, tanto più che quell'album aveva ricevuto accoglienze purtroppo
tiepide dalla stampa americana mainstream e non solo (sarebbe sempre bene ricordare:
spesso negli States "vendi quindi sei", altrimenti le cose cominciano a farsi
complicate…). Supernova tenta dunque il salto più lungo della gamba,
rivoluzionando la band e coinvolgendo la produzione "catchy" e maliziosa di Dan
Auerbach (una garanzia di attenzioni smisurate in questo momento) fino ad
espandere lo spettro sonoro delle canzoni di Lamontagne.
Le fondamenta
del suo stile ci sono ancora tutte, ma tra riverberi vintage, arrangiamenti scaltri,
nostalgie varie e mescolanze fra radici folk e visioni pop psichedeliche, quasi
"cosmiche" dovermmo dire, visti i loro agganci con un certo ritorno alla stagione
californiana di fine sixties, il disco diventa un po' troppo ruffiano e a tratti
inconsistente. È la personalità di Ray Lamontagne a perderci in questa lotta,
mentre Auerbach copre forse una mancanza generale nella tenuta delle canzoni (non
ce ne sono di veramente memorabili) con espedienti di studio. Si parte tutto sommato
convinti dei propri mezzi, magari più lusingatori del previsto, ma capaci di intrigare
l'ascolto: Lavender è imbevuta di quell'immaginario
musicale di cui sopra, ma non abbandona il fascino della voce arsa di Lamontagne,
passando poi al flessuoso incedere di Airwaves
e ai suoi sospiri vocali e infine alla più sostenuta She's
the One, che della filosofia Black Keys / Dan Auerbach si nutre a piene
mani, con tonanti chitarre ricche di eco.
Fin qui una mossa accettabile,
seppure il materiale si presenti subito di seconda mano rispetto al passato. Dalla
sognante Pick Up a Gun, immersa in delizie vocali che sembrano uscite dalla
mente di un Brian Wilson, le cose cominciano a scivolare inesorabilmente. Non
tanto, come ribadito, per mere questioni di arrangiamenti e suono, quanto per
una impalpabilità generale dei brani: Julia
è un "rockettino" psichedelico senza costrutto, No
Other Way e Ojai sfumano tra risonanze
country rock già sentite con più convinzione in passato (leggasi: rifanno il verso
a se stesse, solo con un vestito nuovo), il singolo Supernova
cattura con facilità tra incastri pop di chitarre e tastiere dal sapore retrò
studiato al millimetro, ma non lascia nulla addosso, mentre il finale scade tra
l'anonimato assoluto di Smashing e Drive-In Movies. Dopo un primo
impatto spiazzante, Supenova è un lavoro che può persino ammaliare un poco per
il suo invitante involucro, eppure grattando la superficie si capisce come rappresenti
il primo vero passo falso nella carriera di Lamontagne.