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southern roots di
Fabio Cerbone (31/01/2014)
Giacchetta
con le frange, look da ranchera, ma non fatevi ingannare, questo non è album da
cartolina. Amy Ray festeggia la soglia dei cinquant'anni passando al setaccio
le sue profonde radici sudiste, per la prima volta forse con una convinzione e
una chiara visione d'insieme, che parla direttamente la lingua della tradizione
country e gospel. Elementi, questi ultimi, che certo non erano mai mancati all'interno
della sua musica, affiorando sia nella produzione in coppia con Emily Saliers
nelle Indigo Girls, sia nella manciata di album solisti (sei in tutto, a partire
del debutto del 2001, Stag) che hanno preceduto Goodnight Tender.
È tuttavia innegabile che le dodici ballate qui riunite abbiano in bocca il mistero
e la malinconia della migliore southern music, ben lontane ad esempio dal suono
più rotondo ed elettrico del precedente Lung of Love o dalla prospettiva folk
punk del citato esordio Stag.
Sono riflessioni dure, heartbreaking songs
che scorrono in colori seppiati e intimi, meditazioni sull'amore e la mortalità.
Tutto ciò aumenta il ruolo in chiave Americana dell'artista, che potremmo davvero
affiancare, per stile interpretativo e ricchezza di sentimento, ad una collega
quale Mary Gauthier: provate per esempio con le indolenti cadenze di dobro e banjo
(l'ottimo Jeff Fielder) in Anyhow o l'honky
tonk disperato di More Pills, dove polvere
e fantasmi americani affiorano all'orizzonte. È peraltro lo stesso, lento wwalzer
dell'iniziale Hunter's Prayer, con il suo
languido violino, a dettare il passo che apparterrà all'intero Goodnight Tender,
aprendo la strada alle cadenze pigre del disco, affascinanti più per il loro portamento,
anche per il gusto di arrangiare con una tavola ridotta di tonalità, che non naturalmente
per una vivace scelta sonora (My Dog tuttavia
saltella a ritmo rockabilly manco fosse Johnny Cash). Nel lento incedere country
soul di Oyster and Pearl, avviluppata con
cura tra organo e chitarre, o nella The Gig That Matters che profuma di
bluegrass si scoprono di volta in volta non solo gli umori asprigni del disco,
ma anche i numerosi ospiti al fianco dell'attrice principale, il cui compito è
di trasformare in parte Goodnight Tender in una sorta di opera corale. Le voci
femminili sono quelle di Kelly Hogan, Susan Tedeschi, della brava
e poco conosciuta Heather McEntire (tenete d'occhio i suoi Mount Moriah),
mentre un ruolo importante nell'imprimere l'asciutta direzione musicale lo rivestono
i membri del collettivo indie folk Megafaun (alla testa il produttore Phil Cook)
e l'amico Justin Vernon in arte Bon Iver, che appaiono in più occasioni
(la toccante ballata Broken Record, l'elegia
gospel rurale di Let the Spirit) ad arricchire
il cast.
Il dialogo è riuscito e si compenetra senza pestare i piedi al
songwriting della stessa Amy Ray: la sempre poco considerata Hogan sceglie di
restare in secondo piano sia nel country da manuale di Time
Zone, sia nella melodia un poco retrò e romantica di Goodnight Tender,
Susan Tedeschi si sceglie giustamente i toni accesi di Duane
Allman, dedica a tempo di brillante country southern rock, mentre alla
brava McEntire viene persino servita su un piatto d'argento la chiusura appassionata
con When You Come for Me, dove è proprio Amy
Ray a fare un passo indietro, celandosi nelle voci di quinta, a conferma dell'aspetto
quasi collettivo di questo viaggio sudista nei ricordi della sua Georgia. Mettetelo
al fianco del più "strombazzato" lavoro di Rosanne Cash e scoprite persino
la sua maggiore sincerità in diversi punti: non c'è partita.