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howlin' soul di
Fabio Cerbone (15/09/2014)
La
voce prima di tutto, è quella che arriva e travolge nelle sue frequenze basse,
qualcosa tra un cane randagio alla Tom Waits e un uomo in nero alla Johnny Cash,
ma dall'animo più soul. Poi la musica, molto primitiva nella sua essenza, anche
se mai veramente spartana, disposta a svelare ogni volta qualche dettaglio. Sean
Rowe è certamente una delle sorprese più interessanti capitate al folk americano
di queste stagioni, un songwriter che disco dopo disco sta acquisendo una sua
particolare espressione, passando dai luoghi oscuri del suo debutto agli arrangiamenti
raffinati che contraddistinguono il nuovo episodio, Madman. Ispirato
in qualche modo dalla vita "on the road", in particolare da un anno passato fra
tour acustici e in solitaria, spesso durante una serie di house concert concepiti
per restare a più stretto contatto con il pubblico, l'album è una prosecuzione
delle tematiche musicali già presenti in The
Salesmen and The Shark, se possibile con una visione persino "eccentrica"
e pop in certe soluzioni.
È senza dubbio un disco più "solare", per quanto
possa esserlo il vocione nero di Sean Rowe, il quale dice di essersi in parte
lasciato influenzare dal blues di John Lee Hooker e dal soul di Ray Charles e
Otis Redding, da un'idea di musica semplice e cruda. Prendiamoli come suggerimenti,
perché se è vero che il ritmico e scorticato riff di Shine
my Diamond Ring ha un sapore aspro, così come Done
Calling You è un lamento degno degli ululati alla luna di Howlin' Wolf,
l'immaginario sonoro di Rowe, che ha prodotto il disco con il vecchio collaboratore
Troy Pohl, continua ad essere una specie di mutazione fra il citato Tom Waits
e Leonard Cohen. Sono quindi soltanto due momenti isolati quelli citati, accostabili
forse alla cacofonia blues rock di The Real Thing, sui sentieri del più
classico Captain Beefheart, perché il fulcro di Madman è spesso rappresentato
da un'idea di ballata folk dotata di cuore soul.
Sono i passaggi più intimi
quelli che esaltano il canto di Rowe e le esperienze narrate: la delicatezza dei
fiati che accompagna la stessa title track, la filastrocca dal retrogusto country
di Spiritual Leather, il lieve pizzicare di
Razor of Love, che anche per via di quelle
eleganti voci femminili sullo sfondo staziona da qualche parte sulle spalle del
gigante Cohen, o ancora la dolcissima melodia pianistica My Little Man
e il finale in tono spirituale di It Won't be Long.
Qui una certa magia di Sean Rowe e quel suo collocarsi fuori del tempo si ripetono
intatti: stile e riferimenti sono gli stessi che abbiamo apprezzato nei precedenti
lavori, soltanto con una vena di romanticismo maggiore. In fondo Madman potrebbe
essere davvero il suo disco più "leggero" fino ad oggi: ad esempio nelle inusitate
movenze funky-disco di Desiree, l'episodio più spiazzante (e anche parecchio
interlocutorio, diciamolo pure) insieme allo strano passo lounge caraibico di
Looking for the Master o nella vaporosa The
Game. Il dato interessante resta però l'idea di esplorare ogni volta
le possibilità della sua interpretazione, pur restando perfettamente centrato
nella sua storia musicale.