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americana di
Fabio Cerbone (02/08/2014)
Ci
sono coincidenze nella vita che vanno oltre il semplice dato di fatto, sono misteri
che alla fine ci portano da qualche parte, in questo caso all'incontro tra il
giovane songwriter Jonah Tolchin e il suo produttore Marvin Etzioni, già
conosciuto per la militanza nei Lone Justice. I due si incontrano registrando
prima un ep a Nashville nel 2013 e quindi il qui presente Clover Lane,
esordio in casa Yep Roc, grazie all'amicizia di Tolchin con un altro folksinger,
Alex Wright. Quest'ultimo gli fa conoscere la vicina di casa Anna Serridge, che
a sua volta spinge Etzioni ad assistere ad un concerto di Jonah in quel di Los
Angeles, restando fulminato dal talento acerbo e sincero del ragazzo. Si scopre
quindi che la Serridge ha vissuto nella stessa casa di Clover Lane, in New Jersey,
dove è cresciuto Jonah e che i genitori di lei l'hanno venduta a quelli dello
stesso Jonah. Tutto insomma torna magicamente e il disco acquista un significato
unico: in mezzo ci sono le storie di solitudine che hanno svezzato Tolchin, animo
inquieto e adolescente complicato, così raccontano le cronache, innamorato del
vecchio blues e della folk music più oscura, quella che il padre, originario del
Mississippi, gli ha tramandato.
Di lui ci eravamo accorti per caso con
la realizzazione dell'indipendente Criminal Man, country blues che inseguiva i
ricordi di Townes Van Zandt. Clover Lane gioca in un'altra categoria, è
il disco del salto di qualità, uno dei migliori esordi in campo Americana del
2014 e una bella scommessa per il futuro, se Jonah saprà mantenere il suo carattere
vagabondo e schietto, che lo rende un perfetto "compromesso" fra la pastosa tradizione
della musica roots d'autore e una certa grezza poesia dall'animo punk blues. I
suoni di Clover Lane restano comunque classici e l'anima dell'album batte per
una musica americana che sa di polvere e sangue, arricchita da alcune presenze
nobili: il sax baritono di Steve Berlin (Los Lobos) che sbuffa un grasso blues
alla Tom waits in Hey Baby Blues, l'armonica
di Mickey Raphael (Willie Nelson) che suggerisce un timido sottofondo al gioioso
country rurale di Atlantic Winds, oppure la
steel di Chris Scruggs che impazza leggera sul suono hillbilly di Midnight
Rain. Sapore brusco quello dei brani di Jonah Tolchin, che ha imparato
però ad essere meno irruento e tagliente, in una parola sola maturo, accogliendo
il trasporto antico delle sue ballate. Lo insegue in questo viaggio il resto della
band, con Etzioni a dirigere il traffico con mandolino (suo l'ostinato che sottende
alla bellissima ballata Mansion in Hollywood) e qualche abbellimento di
chitarra: sono aspri e dolci al tempo stesso, come la voce di Tolchin e il suo
aspetto da vecchio hobo, una barba incolta e un'immagine da uomo di campagna.
Anche le canzoni possiedono questo spirito d'altri tempi, con forti agganci alla
scrittura del blues, ai temi naturali e di ispirazione universale (forse da qui
il mistero di un disegno di copertina degno della stagione psichedelica...): si
comincia con il battito crudo di fiddle e armonica in Mockingbird,
si passa per le ruvide, appiccicose atmosfere dell'elettrica Hybrid Automobile,
paludoso rock blues che sa di Delta lontano un miglio e si finisce con l'alternative
country di Motel #9 e il delicato, malinconico
saluto acustico di I'll Be Gone. Nel frattempo Clover Lane ha fatto in
tempo a prendere qualche sentiero meno impervio: l'elegiaca Diamond Mind
e Low si avvicinano a timbriche indie folk (le quali, credo, non lo separano del tutto
dalla realtà della giovane american music di oggi). C'è anche la seconda voce
di John McCauley dei Deer Tick a confermare questo legame, anche se una canzone
adorabile come 21st Century Girl, morbido
country rock che arriva sfiorare una brezza californiana e scelto come primo singolo,
con il suo gruppo di riferimento non è mai stato capace di scriverla.