Paul Brady
The Vicar St. Sessions Vol.1
[
PeeBee/ Proper
2015]

www.paulbrady.com

File Under: And the healing has begun

di Gianfranco Callieri (27/04/2015)

In un album del genere, qualunque cosa si possa pensare sui suoi contenuti, ci sono, a prescindere (come avrebbe detto Totò), diverse storie interessanti. Intanto la storia di Paul Brady, cantautore nordirlandese abituato a intrecciare le radici folk della sua terra con la melodia del pop-rock degli anni '80 e '90, cresciuto ascoltando il country, lo swing e il r'n'r del dopoguerra, impegnato a sinistra, passato per i seminali Planxty (senza incidere purtroppo alcunché) e dal 1981 orientato a confezionare piccoli miracoli di buon gusto, equilibrio e armonia dove gli aspetti più tradizionali della canzone d'autore da lui pazientemente scontornata si fondono con suggestioni celtiche e rimandi al serbatoio inesauribile del rhytm'n'blues d'oltreoceano; insomma, una specie di Van Morrison certo meno viscerale e intenso del modello originale (peraltro irraggiungibile) ma, in qualche modo, più simpatico, accessibile, perché no amabile.

Poi c'è la storia dei suoi ospiti: alcuni famosissimi, per esempio il Mark Knopfler di una Baloney Again sfumata di country-rock "cosmico", e altri legati a Brady da un vincolo territoriale, come Gavin Friday (Virgin Prunes) e Maurice Seezer (il compositore dietro a quasi tutte le colonne sonore dei film di Jim Sheridan), rispettivamente voce (sbalorditiva per espressività) e piano acustico (tanto delicato quanto lancinante) in una commossa Nobody Knows; alcuni connessi al nostro da un comune retaggio culturale e nazionale, su tutti lo stesso Van Morrison di una ruggente, sontuosa Irish Heartbeat, e altri a lui vicini in ragione di un passato all'insegna di molteplici collaborazioni, discorso valido per la Bonnie Raitt di una Not The Only One dove il rock-blues della rossa chitarrista acquista i riflessi luminosi di un tramonto sulla costa californiana come per il vocalese jazz di Curtis Stigers (Don't Go Far) o il lentaccio pop di Ronan Keating (The Long Goodbye), due brani e due artisti sputtanati finché si vuole ma qui provvisti di un'indubbia efficacia nel portare a casa performance senza sbavature e anzi ricche di carisma. C'è il patrimonio musicale irlandese, esplorato ricorrendo soltanto alla voce di Brady e dell'amica Sinéad O'Connor (In This Heart, tutta a cappella: da brividi) o a una splendida murder-ballad di Eleanor McAvoy, su di una ragazza scomparsa, intitolata Last Seen October 9th (Brady lascia il microfono all'autrice e si limita a sedere dietro il piano), oppure ancora al canto corale, e all-Irish, di Mary Black, Maura O'Connell (De Dannan) e Moya Brennan (Clannad), talmente affiatate e gospel da far sembrare la Forever Young di Bob Dylan praticamente nata sull'isola di smeraldo.

C'è la purezza artigianale di un pugno di canzoni in grado di rigenerarsi nella scintillante dimensione dal vivo di una band essenziale, in cui spiccano le tastiere di Steve Fletcher, le sei corde (soprattutto acustiche) di Jennifer Maidman e la batteria di Liam Genockey (ascoltate come rielaborano in senso elettroacustico il movimentato pop'n'folk dell'iniziale I Want You To Want Me), e c'è, infine, anche se spiacerà a molti, un pizzico di comprensibile autocelebrazione, essendo The Vicar St. Sessions Vol.1 il riassunto di 23 spettacoli (in un mese!) andati in scena, nell'ottobre del 2001, presso il Vicar Street, una delle sale concerti più belle e meglio attrezzate di tutta Dublino. Sarebbe per quanto mi riguarda interessante se altri volumi, come suggerito dal titolo di questo, seguissero, perché molto materiale di prima scelta è rimasto inevitabilmente fuori (nella serata con ospite Knopfler, tanto per dire, lui e Brady si produssero in una lunga, struggente versione della Dimming Of The Day di Richard & Linda Thompson), ma per onestà e chiarezza va detto, a chi già conoscesse il titolare, che qui non c'è niente di nuovo, mentre chi non l'avesse mai incrociato sappia, invece, che la sua scrittura morbida e malinconica potrebbe spesso apparire, a chi predilige ambienti acustici più taglienti, sin troppo levigata e inoffensiva. E nondimeno, reperire la novità, la crudezza o la provocazione mi sembra, almeno davanti a esecuzioni così convinte e brani così efficaci, davvero l'ultimo dei problemi.


    


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