File Under:The
returning of The White Buffalo di
Matteo Fratti (01/09/2015)
White
Buffalo (lui o loro è domanda retorica …) sta al mondo dei bikers quanto i
Beach Boys stavano a quello del surf. Eppure dal natio Oregon è cresciuto anche
lui in California, un paradiso con alle spalle molti luoghi oscuri tra il deserto
ed il mare, a cui la band che sta dietro l'identità di Jake Smith potrebbe aver
attinto quelle ballate scure e cavernose di una barbuta montagna umana, canzoni
che sembrano più che altro scritte da una sorta di 'Eddie Vedder sudista' anziché
da un figlio del Golden State. E non a caso la sua voce è stata prestata più volte
a contraltare della serie motociclistica televisiva "Sons of Anarchy", dove le
molte songs dalla sua produzione si compenetrano di un immaginario filmico da
"mother****ers - motociclisti", a tessere le fila di uno stereotipo da teste di
choppers, piacevole quel tanto che basta, ma a volte così autentico e tanto vario
quanto l'originalità di un giubbotto "chiodo" nell'heavy-metal.
Ma a parte
il dibattito di settore dall'universo a due ruote (..e Harley sta a Triumph quanto
l'heavy sta al rock) ne consegue che a un primo e generico ascolto anche il lavoro
del nostro "bisonte bianco" risenta in simil modo, quanto più velatamente, di
una possibile trappola da cliché. Poi, la presenza della sua voce anche per altre
immagini che ritornano al surf di cui sopra a proposito del documentario di Chris
Malloy, Shelter, evoca un po' di colore in quel che nelle canzoni comunque ognuno
ci trova, indipendentemente da quello a cui potrebbero essere associate dal punto
di vista filmico, certo influente. Godiamoceli allora in tutte queste sue sfaccettature,
i pezzi che Love and The Death of Damnation mette in circolo, con
un'evoluzione elettro-acustica rispetto ai precedenti episodi (ep a parte) di
Once Upon A Time
In The West e Shadows,
Greys And Evil Ways, garantendo un approccio simile, ma un po' più
dinamico rispetto a elementi di folk più radicali.
Il nuovo album se ne
allontana, senza per questo apparire come un puntino all'orizzonte, ma semplicemente
allargando la line-up attorno alle sue più classiche ballads, arrangiate ora con
fiati, violino, cori, lap-steel, pedal-steel, organo, piano, con un apporto arricchito
e reso più completo da una struttura vivace. Un po' come dire che, se la sostanza
non è poi cambiata molto, è la forma a renderla più appetibile, innestandosi su
di un prodotto già buono di per sé e ora, di sicuro, più completo. Jake Smith,
che in copertina pare immergersi nelle acque apprestandosi alla redenzione del
rock'n'roll, entra nel merito della vicenda proprio con Dark
Days: a scapito del titolo, un incipit sparato a mille come sulle assi
di un palco da saloon. A seguire, Chico e Home Is In Your Arms seguono
la stessa vena artistica, ma è la bellissima ballad pianistica Radio
With No Sound a giocare la carta migliore, volgendo gli orizzonti agli
umori crepuscolari che più si addicono al nostro, ergendosi a meglio del lotto.
La voce di Audra Mae aggiunge poi, con mood del tutto personale, un tono
d'apertura ai caratteri scuri dell'altra fantastica "lenta" in scaletta,
I Got You, forte e romantica come uno sguardo solare. Cose come Last
Call To Heaven restano invece ai titoli di coda, come Rocky,
più movimentata, ma pur sempre "buffalo - style". Un tuffo al cuore ci sorprende
però quando Come On Love Come On In ci lascia
quell'attimo come di Long As I Can See The Light dei Creedence. Un attimo certo,
ma quel tanto che basta per la fine di un disco e l'attesa di un altro. E un'altra
faccia dei White Buffalo.