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border soundtrack di
Fabio Cerbone (21/04/2015)
Sono ancora i luoghi, i confini fisici e dell'anima, le storie dal border, a ispirare
la musica dei Calexico, questa volta diretti in Messico, quasi a voler
agguantare la magia dei loro esordi. È infatti da un soggiorno nello storico quartiere
di Coyoacán di Città del Messico che nasce il primo nucleo di Edge of the
Sun, poi completato negli studi di Tucson con la solita fidata squadra
di musicisti e il produttore Craig Schumacher. Sullo sfondo il tema della contaminazione
fra diverse culture e la costante presenza dell'immigrazione come simbolo di incrocio
fra musiche e stimoli distanti, l'album sembra quindi riprendere il viaggio che
fu di The Black Light, Hot Rail e Feast of Wire, "trilogia" del confine che delineò
il suono Calexico e che tuttavia non riuscì più a seguire quel percorso per un
naturale esaurimento, portando la band verso composizioni meno spontanee dei lavori
successivi.
L'impressione al primo impatto è che Edge of the Sun non abbia
risolto questa crisi di identità, o meglio riveli ancora una volta un'immagine
in superficie molto chiara dell'universo Calexico, ma ne rappresenti una versione
solo accattivante e qualche volta ordinaria. È il senso di "mistero",
così essenziale agli inizi, ad essere scomparso dai solchi dei loro dischi, così
Joey Burns e John Convertino preferiscono una musica più formale, gradevole ma
in definitiva più vuota, come dimostra il primo singolo Falling
from the Sky: insieme a Bullets & Rocks rappresenta un generico
stile Calexico, dovremmo ormai definirlo, riletto alla luce di un indie rock dalle
pulsioni latine e country. La coralità dell'album, la numerosa presenza di ospiti,
non fa che ribadire questa indecisione di fondo, come se la band avesse bisogno
sempre di nuovi confronti per giustificare il proprio percorso artistico: ecco
dunque Sean Beam (Iron&Wine), Ben Bridwell (Band of Horses), Nick Urata (Devotchka),
Carla Morrison, Neko Case e Gaby Moreno tra i tanti, a sostenere e arricchire
la scenografia, di per sé forse incapace di reggersi in piedi. Cadiamo in quella
routine di classe che già evidenziava il precedente Algiers:
il timore è che il suono dei Calexico sia diventato una suggestiva quanto inoffensiva
colonna sonora e non una sua rivisitazione fascinosa e scura.
Miles
from the Sea arriva per esempio dalla prima età del gruppo, possiede
la stessa malinconia e si colora degli orizzonti di Tucson, così come la pedal
steel di When the Angels Played sa di country
e confine e Woodshed Waltz torna alle visioni di frontiera: piacevoli dimostrazioni
di un grande formalismo, fotocopie (meno interessanti) di un tempo. È evidente
il richiamo alla varietà stilistica di Feast of Wire, nonché il ritorno alle visioni
che resero unico The Black Night, ma non vi è traccia della stessa potenza musicale
e neppure della stessa qualità dei brani. Il suono oggi si fa più elettrico e
sfarzoso nella ricerca degli arrangiamenti: Tapping on the Line flirta
con un briciolo di elettronica e un mix di pop e sensibilità roots che tuttavia
sulla distanza si spegne. Alcuni tentativi poi di ibridare musica latina, rock
ed elettronica sono quai goffi: Cumbia de Donde
è ruffiana come poche e non è degna della band, da queste parti ci sono passati
i Los Lobos con ben altri risultati; Coyoacain è una rimasticatura degli
strumentali di un tempo, mentre Beneath the City of Dreams
mischia latin rock e ritmi in levare, risultando seducente nei coretti, pulsante
nei ritmi accesi, eppure inoffensiva e persino un po' banale. Occorre aspettare
World Undone per sfiorare quel senso di mistero
e desolazione di cui sopra, uno degli episodi migliori, che cede infine il passo
a Follow the River, chiosa con un tocco border rock alla Calexico, ballata
nelle corde nostalgiche della voce di Burns. Ancora un aggancio al passato, sfuggente
e ingannevole nel ricordo.