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american folksinger di
Fabio Cerbone (02/01/2015)
La
U.S. Route 62 conduce verso Ovest uscendo da Buffalo. A pochi isolati è nato una
sessantina di anni fa Peter Case e nel tempo quella direzione è stata la
sua educazione sentimentale: innanzi tutto verso la California e un sogno, condotto
prima a ritmo di rock'n'roll (con Nerves e Plimsouls), poi di brillante folk elettrico
(buona parte della sua carriera solista). La foto del cartello stradale e dei
campi che lo circondano è ritratta sul retro di copertina di Hwy 62,
album che segna il ritorno dopo cinque lunghi anni di assenza e sancisce anche
un nuovo contratto discografico con la Omnivore, etichetta solitamente più nota
per la sua attività di ristampe. Sul fronte campeggia invece il faccione barbuto
e segnato dal tempo di Peter, a metà fra un senza tetto, un folksinger di strada
e un vecchio hippie in ritirata: c'è un po' di tutto questo nelle note del disco,
undici tracce che tornano all'amore per il blues acustico, per le radici folk,
per quella via tra Mississippi John Hurt (a cui dedicò un bel tributo qualche
anno fa) e Woody Guthrie, passando per Bob Dylan, che ha spesso ispirato la sua
scrittura.
Un brano di Dylan ci è finito per davvero nella raccolta, si
tratta di Lone Time Gone, inedito del periodo
Freewheelin', e si sposa perfettamente con le intezioni di tutto il resto: ballate
che hanno il gusto del commento sociale e della protesta, che parlano di un mondo
di ingiustizie, cominciando dalla visuale di un carcerato in Pelican
Bay, ma non compiono assolutamente l'errore di finire nell'angolo di
una noiosa sequenza di recriminazioni. Niente barricate insomma, ma attenzione
ai chiaroscuri dei sentimenti, alle sensazioni più intime dei protagonisti di
queste canzoni, come è tradizione di un songwriter sensibile. Abbandonata l'animosità
rock del precedente Wig!,
il Peter Case di Hwy 62 si riavvicina ai suoi celebrati esordi, tornando sui passi
dello splendio secondo disco prodotto da T Bone Burnett, The Man With The Blue...Guitar,
o verso lavori un po' ignorati e invece apprezzabili come Flying Saucer Blues.
Lo fa tenendo insieme languidi ritmi tra Americana e blues in Waiting
on a Plane, dolci sprazzi di psichedelia folk in New
Mexico, più depressi toni acustici in Water
From a Stone e brusche sterzate verso il cuore folk blues (If I
Go Crazy, Evicted). Una parte del merito
va condivisa con una band nuova di zecca, che in studio cuce insieme questo sound
secco e melodico al tempo stesso, scansando il pericolo di una noiosa lezione
di roots music: ci sono il drumming conciso di D.J. Bonebrake (X) e di spalla
il basso di David Carpenter, nonché i contrappunti alla slide di Ben Harper
in persona. Qualche discreto abbellimento al piano e il pickin' preciso di Case
all'acustica per completare l'intesa: All Dressed Up
(For Trial) acquista persino un retrogusto pop lennoniano nelle trame
della melodia, in netto contrasto con la storia di ingiustizia che racconta. Un
bel ritorno e la riprova che Case è uno degli autori più ingiustamente ignorati
della sua generazione, quella uscita dalla febbre post punk americana dei primi
anni ottanta e incamminatasi verso il battito della tradizione.