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life & mistery music di
Gabriele Gatto (05/02/2015)
Ammettiamolo, l'idea non era una di quelle che provocano salti di gioia o urla
di giubilo: Bob Dylan che decide di interpretare una manciata di canzoni
di Frank Sinatra potrebbe apparire quasi surreale. Non si potrebbe pensare a personaggi
più distanti. Da una parte un cantante di jazz, un crooner, anzi, il crooner per
eccellenza, artista emerso alla ribalta in età relativamente avanzata, abbondantemente
oltre i trent'anni, dall'altra un musicista passato in uno schiocco di dita dal
folk al rock anfetaminico, che a 25 anni aveva già disseminato almeno cinque album
capaci di sovvertire l'intero panorama della cultura americana e, in un certo
senso, dell'intera storia del Novecento. Due rette parallele, quelle di Bob Dylan
e Frank Sinatra, capaci comunque di incontrarsi giusto vent'anni fa, quando per
il compleanno dell'uomo con gli occhi di ghiaccio, Dylan cantò Restless Farewell,
in una versione acustica da togliere il fiato. Non è iperbolico che quella Restless
Farewell fu una delle più grandi vette della storia concertistica di Bob Dylan.
Si dice che fu proprio Sinatra a chiedergli di cantare quella canzone. E l'uomo
di Duluth la cantò misurando ogni nota, la sua voce già segnata dagli anni carezzò
la melodia come accaduto in pochissime altre occasioni. Alla fine della canzone,
"Mr. Frank", come lo chiamò Dylan augurandogli buon compleanno, era visibilmente
emozionato.
Sono passati vent'anni. Dylan è ormai un uomo di settantaquattro
anni che ha già detto tutto ciò che doveva dire nella sua carriera. Dopo il suo
ultimo capolavoro autografo, Time Out Of Mind, i suoi dischi di studio indugiano
su formule ripetitive, adagiandosi su vecchi giri di blues, pieni di mestiere
ma anche, in definitiva, per nulla indispensabili. Continua a girare il mondo
e a raccontare storie, senza vergognarsi del tempo che passa né di mostrarsi ogni
giorno più anziano. Eppure c'è una dignità nell'invecchiare di Bob Dylan che ha
qualcosa di singolare. Se, in un certo senso, il rock and roll è una sorta di
grande esorcismo della morte come fatto della vita umana, Bob Dylan si
è sempre avvicinato al fatto della morte senza demonizzarla, ma guardandola in
faccia. Non è un caso che in questi giorni abbia rilasciato una (magnifica) intervista
all'AARP, non "la bibbia della controcultura" bensì la rivista dei pensionati
americani, in cui ha parlato del significato di fare musica, del mistero che circonda
ogni canzone, del significato dell'invecchiare. A ben vedere, proprio in quest'ottica
si spiega la scelta dei dieci standards che Dylan ha voluto registrare per questo
nuovo album. Dieci canzoni lente, profonde, che parlano dell'amore, di malinconia,
di foglie autunnali. Il diretto paragone non sono i dischi swinganti di Sinatra
ma i suoi concept più meditabondi e solitari, come In The Wee Small Hours,
Sings Only For The Lonely o Watertown.
Il risultato non
è un disco per tutte le stagioni. Shadows In The Night è sicuramente
denso e per nulla leggero. Il suono è scarno, la batteria è completamente assente
e a farla da padrone è la pedal steel di Donnie Herron, circondata da chitarre
pizzicate, il contrabbasso di Tony Garnier e qualche corno francese che fa capolino
qua e là. Più che gli album di Sinatra, Shadows In The Night ricorda certi dischi
dal tono elegiaco: alcuni fra gli ultimi lavori di Jimmy Scott, Lady in Satin
di Billie Holiday, You Must Believe Inspring di Bill Evans, in un certo senso
anche gli American Recordings di Johnny Cash. Tutti album che guardano "indietro",
che scavano in profondità, che in un certo senso parlano della vita (e della morte)
con nostalgia e malinconia. Ha poco senso quindi cercare un paragone con altri
dischi del suo passato. Shadows In The Night fa storia a sé nella produzione dylaniana.
Notturno, in alcuni momenti quasi languido, questo oltretutto è il disco dove
Dylan canta meglio dai tempi di Time Out of Mind. L'artista di Duluth cesella
le melodie con una grazia inenarrabile, lontana dai toni salmodianti con cui riveste
ultimamente le sue canzoni nelle interpretazioni dal vivo; una grazia che tocca
i suoi picchi espressivi in una What I'll Do carezzevole
e insieme nostalgica e nel meraviglioso finale dell'album, con una Lucky
Old Sun di intensità difficilmente descrivibile. E, come per i dischi
di Jimmy Scott, quella voce così strana riesce a trasmettere una gamma di espressioni
dell'animo umano che raramente potrebbero essere espresse da altri cantanti.
Non
ci vogliamo sbilanciare - sarà il tempo a dire la verità e magari verremo smentiti
- ma in definitiva Shadows In The Night potrebbe essere il capolavoro finale di
Dylan, un disco tanto inaspettato e fuori dai canoni quanto sorprendente e, in
definitiva, bellissimo.