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The soul of a Wolf di
Fabio Cerbone (22/04/2016)
A
ideale chiusura di una trilogia della saggezza, A Cure for Loneliness
(bellissimo titolo) segue il percorso solista di rinascita che Peter Wolf
inaugurò nel 2002 con Sleepless. Settant'anni lo scorso marzo, mai particolarmente
prolifico come altri suoi "ingombranti" colleghi, Wolf è un musicista che si concede
quando ha qualcosa da dire. Ha vissuto intensamente, saggiando il sapore della
vittoria insieme alla J Geils Band, ha macinato miglia e concerti, in un'educazione
in pubblico che è stata la quintessenza della sua formazione da animale da palco.
Da qualche anno però sembra avere raggiunto una maturità persino inedita. La sue
ballate rock tinteggiate di carezze soul e radici country, la classicità immediata
delle melodie e il richiamo alla tradizione sono la dimostrazione di un inteprete
che non ha più nulla da dimostrare, solo godersi uno splendido tramonto, dove
contano l'amore per questa musica e i ricordi.
Nostalgico quanto basta,
si veda anche la copertina in atteggiamento da "resistenza vinilica",
ma per nulla anacronistico, A Cure for Loneliness riparte da dove era terminato
Midnight
Souvenirs, fortunato album del 2010 impreziosito con ospiti e duetti.
Questa volta più dimesso nei toni e soprattutto senza prime donne tra i piedi,
il disco pesca fra materiale originale, in parte firmato con il collaboratore
storico Will Jennings, e cover da intenditore, indugiando più che in passato sul
volto languido e romantico della sua scrittura. Sarà la produzione e il tocco
limpido di un pianista come Kenny White, ma il suono di A Cure for Loneliness
e della band di supporto (The Midnight Travelers, con i chitarristi Kevin Barry
e Duke Levine in evidenza, oltre alla partecipazione di Larry Campbell) possiede
il portamento di gente come Willy DeVille, nonché il mood strascicato e
sereno dell'amico Keith Richards nei suoi momenti più intimi, sorta di anime gemelle
di Peter Wolf. Il quale sfodera subito due ganci da ko e segna il destino dell'intero
album: Rolling On è un distillato di classe
cristallina, effluvio di piano e soffusa ritmica, ballata che scalda il cuore,
seguita dai sussulti roots di It Was Always So Easy (To Find An Unhappy Woman),
brano portato al successo negli anni Settanta dal dimenticato country singer Moe
Bandy.
L'incrocio fra le strade di Memphis e quelle di Nashville, fra
accenti country e languori soul (It's Raining, scritta con Don Covay) è
la semplice chiave di lettura di questo lavoro, che sciorina una prima parte tra
le più convincenti della produzione di Wolf: Peace Of
Mind è un'altra lezione di bravura, contenuta nei toni, crogiolata
nei cori, prima di virare blues e sudaticci dentro l'atmosfera da juke joint di
How Do You Know. Fun For Awhile ciondola
fra pedal steel e accordion con toni country da crepuscolo sul confine messicano
e Some Other Time, Some Other Place riprende la via agreste con violino
e armonica da abbraccio sotto un portico. Forse meno vivace dei suoi predecessori,
A Cure for Loneliness è in parte anche più incoerente, per esempio quando suona
retrò nel ripescaggio di Tragedy, dimenticata hit del '59, o abbozza un
cenno di ballata acustica nel finale di Stranger, e ancora quando utilizza,
strana scelta, due brani registrati dal vivo in scaletta… Ma all'attacco soul
rock di Wastin' Time e soprattutto alla piccante
versione bluegrass del vecchio cavallo di battaglia Love
Stinks si può cedere tranquillamente, perdonando qualche peccato da
navigato mestierante. Ancora una grande lezione di stile, Mr. Wolf.