"Immagino
di avere perso tutta la mia innocenza molto tempo fa" canta a un certo punto Conor
Oberst, con quell'inconfondibile tratto confessionale e malinconico che appartiene
di diritto alla sua scrittura e al suo personaggio. Più dinsincantato dunque,
quasi quarantenne consapevole di una strana carriera, un ottovolante che lo ha
portato dall'essere una sorta di Re Mida dell'indie rock americano, stella brillante
ai tempi dello pseudonimo Bright Eyes, al ruolo attuale di rispettabile, moderno
interprete della tradizione dei folksinger, sempre a confrontarsi con quei tratti
"dylaniani" che immancabilmente vengono evocati nell'accostarsi alla sua musica.
Non mancherà di subire la stessa accusa anche Salutations,
che anzi ne rappresenta una sorta di apoteosi, non tanto in termini strettamente
musicali (e il gioco dei richiami abbonda, da Napalm a A
Little Uncanny fino a You All Loved Him Once
ed altri episodi di acceso folk rock elettrico), quanto nella capacità di mettere
a nudo i propri pensieri, le proprie solitudini e le zone buie della vita con
un songwriting ricco di citazioni, immaginario sperduto fra riferimenti a luoghi
e personaggi più o meno famosi, alternati ad elementi di pura introspezione. Definito
già da più parti come il secondo tempo, in versione full band, del predecessore
Ruminations, album scarno e solitario dello scorso anno che ha raccolto più di
un consenso critico, Salutations incarna il volto colorato e complesso di quelle
stesse canzoni. Alle quali, a dire il vero, Oberst aggiunge la bellezza di sette
brani, rendendo così Salutations un'opera articolata e fin troppo prolissa, qualche
volta sfilacciando la forza del repertorio.
Non che si perdano le qualità
di Too Late to Fixate o Gossamer Thin,
tracce che introducono la sceneggiatura del disco, il suono folkie e leggermente
elettrificato che mischia armonica, accordion e violini con qualche impennata
rock più decisa lungo il percorso, ma è innegabile che la verbosità di musica
e parole a volte diluisca le emozioni, lasciando forse il dubbio che nella veste
intima dell'antenato Ruminations qualcosa godesse di una scintilla maggiore. La
luminosità degli arrangiamenti e la pletora di illustri ospiti (da Jim Keltner
a Jim James a Blake Mills, da M. Ward e Gillian Welch fino a Jonathan Wilson,
per nominarne alcuni) che assecondano l'abbondanza del materiale rendono comunque
Salutations una raccolta con diverse frecce al suo arco: dal folk cosmico di Till
St.Dymphna Kikcks Us Out alle svisate in campo southern rock di Anytime
Soon, e nel mezzo quell'eccesso di tempi medi in groppa a ballate dai sapori
alternative country, finanche spruzzate di soul (Tachycardia), che sono
una buona scusa per infilare versi "spietati" sul foglio di carta di Conor Oberst
("chiudo gli occhi, conto le pecore/ una pistola nella mia bocca, cerco di dormire/
ogni cosa ha una fine).
Ecco, ci fosse stata una regia più asciutta, cosa
che ormai non sembra interessare più a nessuno dei nuovi autori americani in circolazione,
nel binomio Ruminations/ Salutations la figura di Oberst avrebbe assunto una posizione
ancora più esemplare. Così sembra avere in parte sprecato una grande occasione.