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Last Waltz di
Nicola Gervasini (27/03/2018)
Persino
i nostri quotidiani nazionali hanno messo in prima pagina la notizia che Joan
Baez fosse in procinto di abbandonare le scene, annuncio che funge un po'
da traino all'uscita di Whistle Down The Wind, nuovo e dunque forse
ultimo album in studio della storica folksinger. Dovremmo fare qui polemica sul
fatto che sarebbe forse ora di considerare la Baez anche come una musicista slegata
da quella che è stata la sua storia di attivista politica, ma visto che esistono
giornalisti che ancora parlano di Bob Dylan come del "menestrello", lascerei perdere.
Lei dice che al massimo la rivedremo sul palco di una causa politica, che grazie
a Trump ce ne sarà nuovamente bisogno forse, e seppur anziana e vogliosa di dedicarsi
all'arte della pittura, lei non si tirerà mai indietro.
Ma al giornalismo
generalista non far sapere che già da metà degli anni settanta la Baez ha curato
la sua attività in studio con un piglio spesso slegato dalla causa sociale del
momento. Insomma, ha fatto la musicista. E come tale ha prodotto una serie di
album attenti al repertorio ma anche alla produzione, uno su tutti il precedente
Day After Tomorrow prodotto da Steve Earle, ma mi piace anche ricordare l'ottimo
Play
Me Backwards del 1992 tra gli album che varrebbe la pena recuperare.
Whistle Down the Wind trova nella produzione al solito precisa e priva di spigoli
di Joe Henry la propria ragion d'essere, e come spesso succede in casa
Henry, offre una serie di cover d'autore in perfetto equilibrio tra autori storici
(il Tom Waits della title-track e di Last Leaf) e di più recente generazione
(il Josh Ritter di Be of Good Heart e Silver Blade). Il padrone
di casa ci infila poi uno dei suoi brani più belli (Civil
War), direi perfetto per la nuova vocalità più roca e profonda di Joan.
Ma funzionano bene anche i brani di più disparata provenienza come Another
World di Anhomi (nuovo nickname di Antony dei Antony & The Johnsons),
le incursioni nel mondo della canzone femminile country con The
Things That We Are Made Of di Mary Chapin Carpenter o The Great
Correction di Eliza Gilkyson, o la scoperta di autrici più sotterrane come
la Zoe Mulford che offre una significativa The President Sang Amazing Grace.
Il finale del disco, e forse di carriera, è affidato invece a
I Wish the Wars Were All Over, canto di speranza che nelle
sue labbra riesce ancora a conservare un senso non esclusivamente utopistico,
se non proprio ingenuo, ed è un brano scritto dal musicologo Tim Eriksen, che
già avevamo potuto conoscere nella soundtrack del film Cold Mountain di Anthony
Minghella curata da T Bone Burnett.
Disco lento, riflessivo, e con il
pianoforte di Henry in gran evidenza a creare atmosfera, Whistle Down the
Wind conserva tutti i pro e contro della spesso fin troppo misurata visione
musicale del suo produttore, tuttavia indubbiamente fautore di un sound che si
mette al servizio delle canzoni e di una voce che magari porterà molti a conciliarsi
con una vocalist spesso considerata vecchia proprio per lo stile fatto a "vocalizzi".
Joan Baez saluta dunque con un album più che discreto e senza clamori, ma rimane
un personaggio importante da riscoprire e rivalutare, senza dubbio rimasto ingiustamente
all'ombra delle proprie cause e dei propri amori, Dylan su tutti, le cui canzoni
ha forse cantato troppe volte.