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Tribute to Uncle Ray di
Nicola Gervasini (19/02/2018)
Il
momento d'oro della carriera di James Hunter è passato e fu a metà anni
90. Dopo una carriera da pub con gli Howlin' Wilf & The Veejays, il soul-singer
dell'Essex fu notato nel 1994 nientemeno da Sir Van Morrison, che per il tour
a seguito di Too Long In Exile si diede ad una insolita attività di talent-scout
imbarcando lui e il vocalist Brian Kennedy (fratello dello scomparso Bap degli
Energy Orchard). Hunter appare così tra gli ospiti del live A Night In San Francisco
e nel successivo album in studio Days Like This, e da lì nel 1996 il grande salto
con un album abbastanza acclamato come ...Believe What I Say, sempre valorizzato
dall'endorsement di Morrison in qualità di guest star.
Se nel 1996 offrire
una proposta così retrò come un R&B di chiara marca Ray Charles, riprodotto fedelmente
nei temi e nei suoni vintage, poteva sembrare una coraggiosa operazione, nel 2018
un disco del genere rappresenta solo una delle miriadi testimonianze del fatto
che ormai stiamo parlando della musica classica degli anni 2000, dove non conta
più creare ma riproporre. Va dato merito ad Hunter di aver evitato in questi 22
anni di cadere nella volgare imitazione da salotto buono alla Michael Bublè, giusto
per citare uno che su Van Morrison ci ha pure costruito uno dei suoi più laccati
successi, ma all'inizio degli anni dieci la sua carriera era comprensibilmente
ad un punto morto. A rivitalizzare il personaggio è stata l'intelligente scelta
di creare un combo (chiamato James Hunter Six secondo tradizione jazzistica)
che potesse ritrovare almeno un poco dell'antica energia giovanile. Dopo un timido
esordio per la Universal (Minute By Minute), il sestetto ha avuto la buona idea
di passare con l'album Hold On! del 2016 alla Daptone, etichetta specializzata
in produzioni vintage fatte con cuore e intelligenza.
E i risultati si
vedono anche in questo Whatever It Takes, album davvero old-style
per copertina, suoni, contenuti e anche durata (28 minuti scarsi). Minutaggio
che se non altro permette di non annoiarsi e godersi appieno questa finestra sul
passato, con un Hunter che forse ormai imita troppo Ray Charles con la voce, ma
con una band più che in forma. Tutto già sentito comunque, dal giro di fiati di
I Don't Wanna Be Without You al giro jazz-salsa della title-track,
da una I Got Eyes che sembra uno dei primi singoli filo-soul dello Spencer
Davis Group al ballo da struscio di MM-hmm, dallo strumentale alla Booker
T. & the M.G.'s di Blisters alla love-song
da spiaggia di I Should've Spoke Up e così
via, fino alla romantica chiusura di It Was Gonna Be You.
Cosa
potrebbe spingervi dunque a comprare 28 minuti di musica già fatta più di 50 anni
fa? La passione è l'unica risposta possibile, quella che alla Daptone sanno ancora
metterci in prodotti senza alcun senso storico se non il puro intrattenimento
di inguaribili nostalgici. E non è poco in fondo sapere che esiste ancora una
etichetta in grado di curare i dettagli in un'epoca di produzioni casalinghe fatte
alla buona.