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Under: rockamericana
di Domenico Grio (15/02/2019)
Incominciava a pesare l’assenza
dalle scene di Ryan Bingham. Quattro anni di silenzio non sono
pochi, sia per gli ammiratori della prima ora, innamorati delle ballate
desertiche e del roots rock ruvido e vitale del magnifico Mescalito, sia
per gli amanti delle atmosfere country più ortodosse, sia persino per
i cultori della versione più elettrica e sguaiata del ragazzotto del New
Mexico, intravista qua e là nei suoi lavori e fuoriuscita con maggior
impeto nel non brillantissimo Tomorrowland. Questo American Love
Song riempie il vuoto lasciato dal precedente Fear
and Saturday Night, riuscendo ad esporre una formula che, senza
voler compiacere nessuno, può rendere felice la maggioranza e, al tempo
stesso, concedere a Ryan nuovi spazi espressivi, alla ricerca di spunti
narrativi diversi e visioni moderatamente alternative alla sua pregressa
storia discografica.
Intendiamoci, nessun stravolgimento, nulla di clamorosamente nuovo, quanto
piuttosto il tentativo di sintetizzare, sviluppare e, in ultimo, rendere
omogenei i vari linguaggi che hanno alimentato il suo già brillante percorso
musicale, impreziosito da straordinarie collaborazioni (Joe Ely, Marc
Ford, Terry Allen, T-Bone Burnett) e dal premio Oscar conseguito per il
brano The Weary Kind. America Love Song ci consegna quindi, in
qualche misura, un Ryan Bingham più “aperto”, presumibilmente più lustrini
che leather rodeo boots ma sempre ben focalizzato e felicemente ispirato.
Jingle and Go, Nothin Holds Me
Down e Pontiac, scorrono una dietro
l’altra in un crescendo energico di sicuro impatto. Dal piano honky tonk
e dalle doppie voci del primo brano, si passa al rock-blues granitico
di matrice sudista del secondo, fino al grezzo e debordante rock’n’roll
del terzo. Ricetta facile, si potrebbe obiettare ma risultato tutt’altro
che scontato, si potrebbe replicare, tanto più se si tratta, come nel
caso di specie, di mettere mano a dei concetti declinati in ogni modo
immaginabile.
E se Ryan esordisce andando ben oltre il mero esercizio di stile, stesso
piglio ci mette anche nei successivi episodi, dando pregio persino a
Lover Girl, una country song, dall’involucro piuttosto banale e rendendo
senz’altro uniche Beautiful and Kind e Wolves,
brani folk dalla struttura essenziale, Got Damn Blues e Hot
House, coraggiosi omaggi a Muddy Waters, What
Would I’ve Become, alternative country di derivazione nineties
o Blue, classic rock dalle chiare sfumature gospel. Un cenno a
parte merita invece America, il breve
lamento di Ryan che ritaglia un passaggio acustico per raccontare della
crisi in cui è sprofondato il suo Paese, che ha evidentemente smarrito
la strada maestra ed i principi fondanti della propria democrazia. Liriche
di qualità, ispirate al vissuto del suo autore e suono ben delineato e
mai sovrabbondante, affidato alla produzione di Charlie Sexton (stretto
collaboratore in passato di Bob Dylan), conferiscono poi a queste 15 canzoni
d’autore un maggior peso specifico ed una forma decisamente accattivante.
Ad appena 37 anni, Ryan Bingham ha la classe e il carisma di un veterano
e questo disco, come quasi tutti quelli a sua firma, è un serbatoio di
belle emozioni, rappresentando, ancor più di ogni suo precedente lavoro,
un variegato ed amorevole compendio di american music. Importante, salutare
ed autentico.