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Under: southern psychedelic jam rock
di Fabio Cerbone (27/06/2019)
Una dozzina di dischi in
dieci anni di esistenza, tra bizzarre prove di studio e dal vivo, ormai
non possono passare come un semplice diversivo rispetto alla storia principale
di Chris Robinson, magari in attesa di chissà quale miracolo che
lo faccia riavvicinare al fratello Rich. E mentre quest’ultimo tenta a
fatica di ricalcare i passi dei Black Crowes con un surrogato di qualità
come i Magpie
Salute, imbarcando anche l’altro superstite Marc Ford, Chris
sembra sempre più coinvolto (e convinto) dalla sua “fratellanza”, un quintetto
che si getta a capofitto in direzione di un’american music dalle
visioni cosmiche e psichedeliche, soltanto di striscio sfiorata dai forti
accenti rock’n’roll di un tempo.
Servants of the Sun ribadisce la formula e la meta, una simbiosi
di testi e musica a ruota libera che vive soprattutto dei dialoghi fra
le chitarre “deadiane” di Neal Casal e gli arzigogoli progressivi delle
tastiere (moog principalmente) di Adam MacDougall: è il loro continuo
rincorrersi a caratterizzare il materiale dell’album, votato per spirito
di emulazione a santificare la grande stagione dell’improvvisazione rock
settantesca, ma spesso in affanno quando si tratta di trovare una melodia
che regga sulla distanza, o anche semplicemente una canzone che possa
lasciare il segno. Si dirà che non è questo l’obiettivo di una musica
scritta e suonata per espandere la sua coscienza dal vivo: Chris Robinson,
nel presentare il disco, ha citato espressamente l’intenzione di proiettare
questi brani sul palco del Fillmore, un sabato sera avvolto tra la folla
degli adepti. Onesta descrizione, che tuttavia stride con quanto lasciato
intendere con il precedente Barefoot
in the Head, il quale sarà stato anche un po’ eccentrico, ma
recuperava quanto meno certe asprezze roots e quella dimensione più accondiscendente
con il formato canzone.
In una battuta potremmo dire che Servants of the Sun abbandona
i Grateful Dead di American Beauty per abbracciare quelli un po’ più funky
e progressive della seconda metà dei Settanta, aggiungendovi una dose
di groove in stile Little Feat, da qualche parte tra New Orleans e la
California. Sulla carta uno spettacolo interessante, ma dopo gli svolazzi
che strizzano l’occhio alla disco music di Some
Earthly Delights e il funkeggiare leggero di Let It Fall
e Rare Birds, pare chiaro che la Chris Robinson Brotherhood
abbia voglia di sciogliersi e traccheggiare, persino troppo, finendo per
ricordare proprio i Little Feat, ma quelli orfani di Lowell George in
fase compositiva, che al tramonto dei 70s continuavano a sorprendere soltanto
per le copertine di Neon Park e assai meno per la qualità delle canzoni.
Ovvio che ci siano sufficienti abilità tecniche e fantasie strumentali
per attirare le attenzioni su questo tardo rock westcoastiano dalle frivole
appendici psichedeliche, solare in Venus in Chrome, capace di combinare
le lontane radici sudiste con le “good vibrations” californiane in Comin’
Around the Mountain (una delle migliori performance di Casal
alla solista), e di richiamare, fosse solo per un breve istante, certa
magia da ballata in stile Amorica (amato capolavoro dei Corvi) in Stars
Fell on California. Poco tuttavia per sostenere l’entusiasmo fino
alla fine, quando A Smiling Epitaph saluta serenamente con l’ennesimo
liquido intreccio di chitarre e annesso corteo di tastiere zigzaganti.