Il più letterato, poetico
e colto folksinger della sua generazione, Joe Henry sfiora i sessant’anni
passando attraverso una tempesta che lo ha gettato davanti alla morte,
nella prospettiva di dover lasciare, nel giro di pochi mesi, gli affetti
e le amate canzoni. Esattamente un anno fa, una diagnosi in un primo momento
impietosa sul suo stato di salute, una forma tumorale molto aggressiva,
lo aveva messo con le spalle al muro. Nella primavera successiva una serie
di versi, appunti, stralci di poesia era fluita su carta per assumere
le sembianze di nuove canzoni, ma l’idea di incidere The Gospel
According to Water sarebbe arrivata soltanto a giugno, quando
quel responso medico di cui sopra si era rivelato meno fatale del previsto
e uno spiraglio di luce aveva offerto una via d’uscita: c’era una cura.
In questo confronto schietto con la sofferenza, Henry ha trovato parole
e suoni che potessero richiamarne il peso, ma senza trasformarlo in un
calvario, semmai offrendogli un’inedita dolcezza acustica, una leggerezza
di spirito, quasi una forma di saggezza che scorre in rassegna errori,
peccati e opportunità, ancora una volta piccole rivelazioni quotidiane
e sentimenti che Joe Henry riesce ad evocare con una maestria letteraria
unica. Per compiere questo viaggio dalle tenebre verso la luce, il suo
approccio è stato volutamente minimale, consapevole fin dal principio
che mantenere l’intera registrazione ad un livello “da provino” avrebbe
significato esaltare la sua voce, sempre più suadente con il passare del
tempo. The Gospel According to Water è essenzialmente folk nelle
ossa, ma talmente sui generis da non possedere affatto le caratteristiche
di un album genericamene roots: il segreto è in quella ricercata modulazione
jazzy che emerge dalle melodie di Henry, a cominciare da Femine
Walk, resoconto di un viaggio irlandese e della stessa title
track, il cui tenero spleen acustico affronta l’immanenza della spiritualità
negli elementi della natura, l’acqua per l’appunto come metafora.
È un percorso che non si discosta dalle scelte stilistiche operate da
Reverie
in poi, un disco con gli anni essenziale per il cambio di prospettiva
nella scrittura di Henry, passando quindi per Invisible
Hour e il più recente Thrum. Tanto è vero che potremmo
considerare persino ripetitivo questo approccio musicale, sebbene The
Gospel According to Water costruisca una fetta del suo fascino originale
proprio nella trama mite delle chitarre, nel loro intreccio folk blues
in The Green of the Afternoon, fra
le blandizie di clarinetto e sax del figlio Levon, che soffiano con grazia
in episodi quali Mule, Orson Wells e nell’amorevole In
Time for Tomorrow, nella costante e discreta presenza del piano
di Patrick Warren. Musica d’autore, certo, ma con un codice che ormai
appartiene al solo Henry. A questo punto della carriera, affermato anche
in veste di produttore, riconoscibilissimo nel suono e negli intenti,
Joe Henry ha sviluppato un senso della melodia e della composizone (sentite
per esempio l’afflato gospel che accarezza The Fact of Love, oppure
il garbo quasi retrò che emerge dalla jazzata Salt and Sugar) che
lo protegge da qualsiasi confronto.
Non è esente da difetti The Gospel According to Water, e noi continuiamo
a sperare che qualche sorpresa ritmica, qualche invenzione, le stesse
che ci avevano stupito ai tempi dei capolavori di casa, Tiny Voices
o Civilians, possa riemergere in superficie, ma se c’è un merito
nella sincerità delle emozioni che offre questo disco è proprio il suo
sfiorare la maniera senza mai cadervi dentro a piene mani.