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Under: groovy folk blues
di Fabio Cerbone (18/04/2019)
Scoprire le prorie radici
di uomo dopo i cinquant’anni, questo è accaduto a Tom Wilson, in arte
Lee Harvey Osmond. Con un dipinto in copertina opera dello stesso
Wilson e tratto dalla sua collezione intitolata Beautiful Scars: Mohawk
Warriors, Hunter and Chiefs, il quarto album di studio dell’autore
canadese indaga, in un percorso personale e rivelatore, le sue origini
di bambino Mohawk, nato nella riserva di Kahnawake e dato in adozione
dai genitori. Combattuto fra le ancestrali discendenze indigene e il volto
colonialista del Canada bianco, Wilson prova a tradurre questa battaglia
interiore in musica.
È ancora una volta un disco avvolto in groove notturni, tepore folk e
languide atmosfere psichedeliche, tratti distintivi di una scrittura musicale
fin troppo ignorata al di fuori dei confini nazionali: conosciuto pricipalmente
per la sua partecipazione al progetto Blackie and the Rodeo Kings, protetto
della schiera Cowboy Junkies (Michael Timmins si attesta nuovamente la
produzione e pubblica Mohawk per la personale etichetta
della band), più volte nominato ai prestigiosi premi di casa, Juno e Polaris,
Wilson si fa largo a fatica con opere da carbonaro, che richiedono pazienza
e ricerca anche a noi ascoltatori per essere rintracciate. Un delitto
che la sua Americana dalla fisionomia sinuosa, profonda come il tono sussurrato
e baritonale della sua voce, non sia apprezzata come meriterebbe: nelle
serpentine movenze bluesy di Colours
e Kingdome Come, fra le maglie un po’ sixties e flemmaticamente
swinganti di Bam, ingrassate dal sax
di Darcy Hepner e dall’armonica di Paul Reddick, risiede buona parte della
seduzione di Lee Harvey Osmond (e il nome d’arte ci aggiunge del suo...),
uno stile consolidato che abbiamo imparato ad amare nei precedenti capitoli
e che oggi ci sorprende di meno soltanto per questa familiarità acquisita.
In realtà si tratta ancora di un affascinante viaggio nella mente e nell’interpretazione
di Tom Wilson, che se in passato era ricorso al sostegno della seconda
voce femminile di Margo Timmins (Cowboy Junkies), oggi si serve con intelligenza
delle nuance offerte da Suzie Ungerleider (Oh Susanna). Li apprezziamo
nel passo country rock dai colori sudisti di
Forty Light Years, la migliore riedizione dello spirito di
J.J. Cale ascoltata di recente, o nel finale acustico ed elusivo di What
I Love About You, prima che Lee Harvey Osmond si addentri nella pacifica
visione folkie di Whole Damn World, con un dobro dai forti accenti
Americana. L’alternanza di luci e ombre, il suono che dischiude spazi
e accarezza silenzi offerto da Timmins e dalla band, conferma Lee Harvey
Osmond un artista capace di afferrare il senso della tradizione senza
apparire imitativo: del tutto personale il suo carattere nella stessa
Mohawk, fra leggiadre spirali folk
psichedeliche e un canto che si fa racconto vero e proprio, adagiato sui
dettagli d’ambiente delle tastiere di Jesse O’Brien e dell’armonica di
Reddick in Burn of Love, ritrovando una leggera spinta rock in
A Common Disaster.
La fortuna sfacciata di Wilson è di possedere quella voce, non una qualsiasi,
che identifica il suo songwriting e la sua musica attraverso un percorso
esistenziale unico.