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Under: texan country rock
di Davide Albini (02/08/2019)
Una boccata d’aria fresca
e un sensibile cambio di passo per la Randy Rogers Band in questo
Hellbent, ottavo album del gruppo texano in vent’anni di carriera,
che grazie all’entrata in scena del produttore Dave Cobb riesce a restituire
un po’ delle qualità degli esordi. Rogers, leader della formazione, era
partito dalla piccola comunità di Cleburne inseguendo il sogno dei grandi
troubadour texani: ballate country, storie semplici, grandi spazi del
West americano che si univano ad una scrittura più rock e moderna, quando
la Randy Rogers Band prese forma negli ambienti del college. I primi lavori
imposero subito il loro nome tra le punte di diamante del cosiddetto movimento
"Red Dirt", portandoli al successo regionale grazie a Rollercoaster
(ancora oggi uno dei loro dischi migliori) e quindi alla firma con al
Mercury/ MCA, pronti per l’esplosione nazionale.
Quel passaggio a mio avviso non è stato indolore: il gruppo ha mantenuto
un certa coerenza (e una line up molto stabile, caretterizzata dal violino
di Brady Black e dalla chitarra di Geoffrey Hill), ha prodotto ancora
discreta musica sotto l’ala protrettrice di Radney Foster, ma strada facendo
si è scolorito diventando portavoce di un rock medio e leggermente banale,
che certamente aveva i suoi adepti a Nashville e che ha regalato qualche
singolo di successo, ma si è allontanato dalla matrice più roots di partenza.
Hellbent, a cominciare dalla scelta di interpretare un
brano scritto da Guy Clark con Chris Stapleton (Hell Bent on a Heartache)
sembra suggerirci che i ragazzi sono tornati a casa, fatto ribadito anche
dalla distribuzione indipendente degli ultimi album. Gli ingredienti della
loro musica stradaiola, dal cuore country rock proletario restano sempre
gli stessi, ma i brani questa volta hanno più anima, sono “ruffiani” il
giusto e si mantengono in perfetto equilibrio fra paradiso e inferno.
Hellbent inoltre sposta l’attenzione su un songwriting più narrativo,
che è la quintessenza di chi viene dal Texas: Drinking
Money accende i motori (si veda anche la copertina, inequivocabile)
tempi medi e ballata rock da manuale, american music da strada infinita
e finestrini abbassati. In I’ll Never Get Over
You entra in gioco con prepotenza il fiddle di Brady Black
e la barra si sposta verso la tradizione honky tonk. Anchors Away
riprende il modello della ballad country rock con grande sensibilità melodica,
esalta la voce "imperfetta" di Rogers, spesso supportata da
altri membri del gruppo, e mette altro fieno in cascina. Tempo di rock’n’roll
con Comal County Line, un po’ sudista e anche un po’ scontata se
volete, ma di immediata presa: qui la Randy Rogers Band ricorda i conterranei
Reckless Kelly, altra band dalle alterne fortune nel suo rapporto con
il mainstream discografico.
Un inevitabile profumo di border messicano e notti brave si insinua nel
mix di acustiche e violino di We Never Made It To Mexico; Crazy
People è il prototipo del suono Red Dirt come è stato definito
dagli artisti di punta del genere, tradizione e classic rock (Tom Petty
pare certamente un punto di riferimento) che vanno a braccetto; mentre
Fire in The Hole sbuffa con andatura da galoppo outlaw country,
come piacerebbe a Joe Ely, e Good One Coming
On annuncia la fine del viaggio con la polvere del Texas che
si alza e il confine fra cielo e terra di quel grande paese.