La pellaccia dura di Ray Wylie Hubbard è
in circolazione, discograficamente parlando, dalla metà dei Settanta,
da quando la sua Up Against the Wall Redneck Mother finì nelle
mani di Jerry Jeff Walker, che la rese un piccolo classico del cosiddetto
country outlaw e contribuì a costruire la leggenda di Hubbard. Icona rispettata
da colleghi più e meno giovani, con una produzione di nicchia che si è
intensificata negli ultimi anni, raccogliendo i frutti di uno sporco e
costante lavoro nelle retrovie, Ray ha colto l’occasione di una vita intera,
ora che si avvicina alle settantacinque primavere, firmando un contratto
con la Big Machine di Nashville (distribuzione Universal). Co-Starring
è l’esito di questa sorta di rilancio, dieci brani costruiti seguendo
il più classico dei canovacci: un ospite per ogni singola traccia, alternando
grandi nomi del circuito rock e giovani stelle dell’Americana, sostenendo
il titolare e le sue canzoni quel tanto che basta per non offuscarne la
figura e al tempo stesso dando un contributo di maggiore visibilità pubblica.
Speriamo sinceramente che l’operazione riesca, perché dopo tanto peregrinare
Hubbard se lo meriterebbe, anche soltanto per tutto ciò che ha scritto
e cantato in passato. Di sicuro la sua tenacia non si lascia scalfire
nemmeno questa volta dalle lusinghe: la musica esprime sempre quel passo,
immutabile, un country blues dalle luciferine connotazioni swamp sudiste
e intensamente elettriche, una specie di Tony Joe White catapultato dalle
paludi della Lousiana nella polvere del deserto fra Texas e New Mexico.
Se l’effetto questa volta sembra un po’ meno monolitico e inchiodato al
palo come nei più recenti album di Ray, è perché la varietà degli umori
e dei contributi degli ospiti riesce a volte a rendere meno tignoso e
corrosivo il contenuto musicale. Il quale parte con la parata di guest
stars in Bad Trick, riflessione ironica
sulla stessa vicenda musicale di Hubbard: la batteria di Ringo Starr (che
aveva già collaborato con il protagonista in passato), il contrabasso
di Don Was, la slide di Joe Walsh e il controcanto di Chris Robinson,
per un brano che rappresenta l’essenza swamp rock recalcitrante del nostro.
In Rock Gods entra in gioco il chitarrista
e songwriter Aaron Lee Tasjan, per un’epica elettrica che omaggia la scomparsa
di Tom Petty, mentre le chitarre sudiste e assassine dei Cadillac Three
rendono bollente l’aria da racconto leggendario di Fast Left Hand.
Il meditare acustico dell’ottima Mississippi John Hurt, in duetto
con Pam Tillis, interrompe la vampa elettrica ed esalta il timbro vocale
rauco, limitato ma affascinante, di Hubbard, nelle vesti di autentico
troubadour texano. Da qui in poi, alternando frustate rock e ricami roots,
Co-Starring assume il ruolo di un disco più equilibrato e in qualche
modo riassuntivo del vagabondare stesso di Ray: la spassosa commedia country
rock di Drink Till I See Double, la
programmatica R.O.C.K. (con le chitarre da piromani di Tyler Bryant
& The Shakedown), la novella fuorilegge al femminile di Outlaw
Blood (in coppia con Ashley McBryde,
tra gli episodi migliori con il suo passo country blues rurale) e la gemella
in chiave juke joint di Rattlesnake Shakin’ Woman (voci e slide
guitar per concessione delle Larkin Poe), fino al contegno roots di Hummingbird
(con il maestro Peter Rowan) e The Messenger nel finale, a fornire
un’immagine più adatta alle origini da folksinger.
La questione non è se Co-Starring sia un album più o meno
ispirato di quelli che lo hanno preceduto, tutti aggrappati a un’idea
precisa, granitica di american music: semplicemente, quando uno se li
è guadagnati, è giusto che si prenda tutti gli onori, magari persino con
gli interessi.