James Hunter è un personaggio speciale nel
panorama musicale odierno. E un uomo vintage. Un appassionato cultore
di sonorità e stile degli anni 50-60, cantante e chitarrista inglese di
57 anni, in attività da tre decenni, capace di crearsi una rispettabile
carriera, più o meno di nicchia, attraverso uno stile sia vocale sia musicale
che possiamo definire senza tempo. In realtà noi che lo seguiamo da qualche
anno abbiamo imparato a godere dei suoi gioielli, perennemente sospesi
in un limbo retrò, certi che il suo script e le sue incisioni fossero
pressapoco scontate e senza sorprese, sempre di grande qualità, ma essendo
ancorate in modo rigoroso al soul e rhythm and blues più classici,
un pochino standardizzate. Alla fine, se accettiamo che i suoi dischi
siano Mono, in un'era tecnologica come questa, e se accettiamo che il
carattere musicale dei suoi lavori non cambi di una virgola da vent'anni
a questa parte, ameremo anche quest’ultimo Nick of Time,
anch’esso un gioiellino al pari dei suoi già meritevoli dischi del recente
passato (in modo particolare ricordo The Hard Way del 2008, e Hold
On del 2016, senza dimenticare la nomination al Grammy del 2006 per
People Gonna Talk).
Un album che testimonia come il nostro amico James e il suo sestetto siano
capaci di modellare, e confermare, una crescita compositiva di alta classe,
che mi permette di annoverare questo lavoro tra i suoi migliori. Le influenze
di James Hunter sono evidenti: il soul di Ray Charles, il primordiale
r&b di Nat King Cole e le ballate cinematiche di Burt Bacharach. La
sua carriera di musicista ha avuto anche il prestigioso passaggio nelle
file della band di Van Morrison (anni Novantas, periodo di Days Like
This, e del live Night In San Francisco), dal quale ha certamente
assorbito, e probabilmente per osmosi distribuito, idee e passaggi melodici
che riascoltiamo in tutti i suoi dischi, incluso quest’ultimo. La band
di Hunter, oltre la sua deliziosa e gentile voce e le sue mani, educate
al blues e all’editing rhythm and blues sulla chitarra, è composta dalla
sezione ritmica di Jonathan Lee (batteria) e Jason Wilson (al basso),
dal tastierista Andrew Kingslow, e dalla coppia di sax, baritono e tenore,
di Lee Badau e Damian Hand. Un combo ormai affiatato, oliato alla perfezione,
preciso e misurato, senza inutili virtuosismi ma attento a dare nei passaggi
strumentali di ogni brano le giuste sonorità e dinamiche, come se fossimo
negli studi analogici della provincia americana del boom economico post
bellico.
Tra i brani, voglio sottolineare il primo pezzo in scaletta I
Can change Your Mind, hit single scelto per promuovere il disco,
delicato medio tempo tra rumba e r&b, melodico e frizzante. Il mio
preferito è senz’altro Till i hear it From You,
vagamente jazz e incredibilmente evocativo dello stile Bacharach. Never
è una ballata davvero di altri tempi, il classico lento da party,
mentre la title track Nick Of Time avrebbe tranquillamente fatto
parte del repertorio di Ray Charles quando incendiava le bettole dell’America
rurale. DeliziosaBrother or Other
che fa preludio al fuoco r&b di Aint’ Going
Up In One Of Those Things, pezzo che avrebbe fatto saltare
il popolo dell’Apollo Theatre. La scaletta di tredici brani per 36 minuti
di musica scorre liscia e piacevole, ascolto dopo ascolto ci fa innamorare
e riscoprire sonorità che abbiamo scoperto nelle colonne sonore dei film
con Elvis Presley, ma che potremo assaporare anche nei concerti, inizialmente
previsti questa primavera in Europa e che probabilmente annullati per
la pandemia, verranno riprogrammati il prossimo anno. Intanto non lasciamoci
scappare questa chicca. Gran bel disco.