La longevità è una questione controversa nel business
musicale: si sono espressi a favore o contro dagli Stones (il tempo è
sempre dalla loro parte, a qualsiasi età) fino a Neil Young (meglio bruciare
in fretta?). I Jayhawks non hanno gli stessi problemi (e lo stesso
conto in banca), per cui possono veleggiare tranquillamente oltre i trent’anni
di carriera senza dare nell’occhio. Tanto è passato dai loro esordi indipendenti
sulla scena di Minneapolis, portando con dignità il peso artistico dei
veterani, di fatto una delle ultime grandi band ancora in circolazione
tra quelle sbucate dalla nidiata alternative country. Il segreto è stato
aprirsi all'enciclopedia dei suoni americani e scompaginare le carte (anche
della formazione, che ormai agli storici Gary Louris e Mark Perlman ha
aggiunto da diverso tempo Tim O’Reagan e Karen Grotberg), mai rinchiudendosi
nel recinto di un genere specifico, come fossero venerati maestri dell’Americana,
ma provando sempre a unire tradizione e melodia, luminescenze pop e chitarre
rootsy, come avviene da copione anche in XOXO (baci e abbracci,
nel linguaggio abbreviato).
Il quale resta un disco più democratico e con quel tanto di mestiere rispetto
alla media dei loro recenti sforzi, senza le ambizioni di Paging
Mr. Proust (decisamente da rivalutare) e neppure la curiosità
di Back Roads and
Abandoned Motels (“scarti” e collaborazioni rimasti nel cassetto).
La differenza la fa il songwriting, che accentua il desiderio di una maggiore
coralità: tradotto significa che Louris molla un poco la presa e coinvolge
attivamente gli altri tre membri, ognuno impegnato a dare il suo apporto
compositivo. L’altalena delle emozioni ne risente e dall’annuncio cristallino
di This Forgotten Town, ossia i Jayhawks
che salgono in cattedra con l’agrodolce folk rock di cui sono maestri,
si prosegue zigzagando per power pop (l’attacco Big Star del riff di Dogtown
Days), walzer acustici (Down to the Farm), romanticherie e
ibridi country pop (Ruby e Across My Field) e armonie beatlesiane
(sparse un po’ dappertutto), che ribadiscono la competenza e la classe
del gruppo, ma non sembrano aggiungere veri e propri gioielli alla teca
preziosa della band.
Inciso ai Pachyderm Studios nella loro Minneapolis, vivendo e lavorando
a stretto contatto per un paio di settimane, XOXO mescola voci
e autori, ognuno mettendo il becco nelle canzoni degli altri, come si
trattasse di una formula comunitaria: Louris se ne dichiara entusiasta,
tanto da rimproverarsi di non averci pensato prima, mentre Karen Grotberg
annuncia convinta una “nuova era” per i Jayhakws da qui in avanti. Più
prosaicamente potremmo affermare che le qualità di scrittura del gruppo
ne conferma l’eleganza e quell’espressività di chi sa come arrangiare
una canzone, anche se ti ritrovi davvero con un tuffo al cuore soltanto
quando, guarda caso, Louris prende il timone: negli effluvi pop rock di
Homecoming, nel piano saltellante
di una Living in a Bubble che sarebbe piaciuta a Harry Nilsson,
o ancora nella tenerissima, cosmica melodia di
Bitter Pills, con i Big Star in gita fra le colline dell’Americana.
È bene ribadirlo: la democrazia con le rock’n’roll band non ha mai funzionato,
al massimo sono accettabili piccoli compromessi.