Nello speciale
per i 20 anni di Rootshighway M Ward ha avuto la sua doverosa citazione
grazie all’album Transfiguration Of Vincent, titolo ispirato a
John Fahey (che pubblicò nel 1965 The Transfiguration of Blind Joe Death),
e anche uno dei dischi più importanti del 2003. 17 anni dopo siamo ad
accogliere il suo decimo album Migration Stories con invariato
interesse, seppur magari non con lo stesso entusiasmo di un tempo. E non
perché non valga ancora la pena di seguire le sue vicende musicali (in
fondo anche i precedenti A
Wasteland Companion e More Rain avevano ancora buone
frecce da scagliare), ma indubbiamente dopo quell’album e anche il parimenti
validi Transistor Radio del 2005 e Post-War del 2006, il
signor Ward ha un po’ mancato l’appuntamento con il salto di qualità successivo,
accontentandosi in parte di ribadire la propria filosofia di partenza
o tentare cambi di direzione appena abbozzati, come quelli di Hold
Time del 2009.
Anche l’epopea del progetto She & Him, creato nel 2008 con l’attrice Zooey
Deschanel, sarebbe forse dovuta rimanere un curioso side-project, invece
di invadere il mercato con ben sei album, di cui due natalizi (così come
rimase fortunatamente episodio unico il pretenzioso supergruppo Monsters
Of Folk, creato con Conor Oberst, Jim James e Mike Mogis). In ogni caso
Ward resta un punto di riferimento del fai-da-te artistico di questi anni
2000, abile tessitore di tradizioni e avanguardie musicali che ci piacciono
particolarmente. Il nuovo album lo vede abbandonare la Merge Records per
accasarsi nella squadra della Anti, ma questo non gli ha impedito di concepire
il disco con Tim Kingsbury e Richard Reed Parry degli Arcade Fire (gruppo
punta della Merge). Dal punto di vista del concept il disco è un bellissimo
viaggio in 11 episodi ispirati da notizie giornalistiche che parlano di
migrazione, argomento che certo non può non interessarci qui in Italia,
con l’idea di raccontare una nuova saga di vite erranti con uno sguardo
che va oltre i confini americani.
I brani evidenziano come non mai il debito artistico nei confronti di
Howe Gelb, suo mentore a inizio carriera, e a tutto quel sound che spesso
definiamo “desertico” alla Calexico, band che tranquillamente metterebbe
in scaletta brani come le iniziali Migration
Of Souls o Heaven’s Nail And Hammer. M Ward gioca come
al solito con gli stili, passando dalla ballata anni 50 di Coyote Mary’s
Traveling Show al quasi trip-hop di Indipendent Man, con un
uso garbato di elettronica che ritorna anche in Real Silence. Il
meglio arriva da alcuni azzeccati mid-tempo come
Along the Santa Fe Trail e Unreal City, più che negli
episodi da indie-folker vecchia maniera come Chamber Music, oppure
dalle notevoli tessiture di fingerpicking di Torch
o degli strumentali Stevens’ Snow Man e Rio Drone, in cui
la passione per John Fahey che accennavo all’inizio si fa puro omaggio.
Ancora una volta da parte sua abbiamo un disco che non farà probabilmente
grande rumore, ma garantisce la solita alta qualità.