“Home is where the heart
is” recita il detto, eppure non si cancella quel desiderio costante prodotto
dalla distanza dalle proprie origini, anche quando si è scelto consapevolmente
di vivere in un’altra parte del mondo... A maggior ragione per i musicisti,
di natura spiriti un po’ erranti su questa terra, votati alla contaminazione
e all’incontro con altre culture. They’re Calling Me Home
racconta un isolamento e un’attrazione verso ciò che chiamiamo casa, nati
in un periodo di forzata reclusione, quella che tutti abbiamo imparato
a conoscere in questo ultimo anno e mezzo. Rhiannon Giddens e Francesco
Turrisi, due “espatriati” accolti dalla nuova patria d’Irlanda, cercano
l’America e l’Italia che non possono raggiungere attraverso il ricordo
del gesto musicale, scavando in un repertorio di tradizionali e vecchie
folk song scelte accuratamente per celebrare questi sentimenti.
Sorta di prosecuzione del lavoro austero e profondo di rivitazione dell’old
time music avviato con il precedente There
Is No Other, il nuovo album della coppia artistica sposta solo
apparentemente l’attenzione dal tema dell’incontro con l’altro e della
migrazione verso una ricerca di familiarità domestica, che è in verità
l’altra faccia della medaglia. Tutti sogniamo il riparo e il conforto
di una casa: They’re Calling Me Home, inciso dal duo (e con rari
interventi esterni) in un piccolo studio nella campagna fuori Dublino,
ne invoca il rimpianto con una ipnotizzante colonna sonora che intreccia
folk americano (il richiamo della regione degli Appalachi in Waterbound)
e inglese (When I Was in My Prime, già nel repertorio dei Pentangle
e nella voce di Jacqui McShee), antichi madrigali italiani (la spiazzante
melodia barocca di Si Dolce è’l Tormento di Claudio Monteverdi,
che ci ricorda l’educazione alla tradizione dell’opera della Giddens),
suggestioni irish e mediterranee (l’originale Avalon),
vecchie filastrocche dialettali (Nenna Nenna) e brani strumentali
(Niwel Goeas to Town, dai tratti fra Mediterraneo e Africa) che
ribadiscono l’affascinante chimica musicale venutasi a creare fra la voce
di Rhiannon Giddens (anche banjo e viola) e gli interventi eclettici di
Turrisi, quest’ultimo diviso fra più strumenti a corda e percussivi.
Il tono del viaggio musicale è dettato dall’apertura di Calling
Me Home: Rhiannon Giddens, come una novella Odetta, sulle orme
poi di Joan Baez o Barbara Dane, sembra ripercorrere il trasporto sentimentale
tipico di certo folk revival, aggiornandolo alla sua sensibilità e al
dettato della società contemporanea. La scelta di alcuni classici dell’american
music è la conferma di tutto ciò, per fortuna evitando il più possibile
un approccio semplicemente accademico: se I Shall Not Be Moved
è coerente con l’impegno civile più volte mostrato dalla Giddens in questi
anni, a sorprendere davvero è l’interpretazione vocale di Oh
Death (che assume un significato straziante alla luce delle
tante vittime della pandemia), da mettere letteralmente i brividi, mentre
nel finale Amazing Grace è rivisitata con uno spettrale accompagnamento
ritmico ed eliminandone il testo, ma giocando soltanto sulla densità del
suono della voce.
They’re Calling Me Home è in tal senso un disco che media fra l’intensità
dell’emozione e la cura del suono: non possiede forse la potenza suggestiva
del suo predecessore, ma sembra portarne a compimento il significato.