«Gone», ossia «assorto»,
«coinvolto» e «infatuato», addirittura (con strana dissonanza ossimorica)
«morto» e anche «incinta», ma soprattutto «andato», «dissolto», «perduto»
o «rovinato». A essere andato in avaria, nel tredicesimo album di Tim
Grimm, è il mondo per come l’avevamo conosciuto, sbriciolato da virus,
inquinamento, corruzione, trascuratezza, realtà concreta di orrore e dolore.
Senza darlo troppo a vedere, perché alzare la voce o ergersi a tribuno
della decadenza contemporanea non sarebbe in alcun modo compatibile alle
corde umili e prosaiche del personaggio, il Grimm di Gone
prova a raccogliere, sottovoce, le lacrime dell’umanità offesa, nel caso
della magistrale title-track - ballata rock ammantata di senso delle radici
come avrebbero potuto fare i poeti di secoli lontani - rallegrandosi che
a ogni latitudine del pianeta possa esserci qualcuno per cui le strofe
di Angel From Montgomery o It’s A Big Old Goofy World, con
ovvio riferimento a due canzoni dello scomparso John Prine, rappresentino
altrettanti tesori da conoscere a memoria.
Prine non è l’unico degli amici e colleghi scomparsi negli ultimi mesi
a venire a galla durante l’ascolto di Gone: ci sono anche David
Olney e Michael Smith, evocati nell’elegante folk-rock alla John Gorka
di Dreaming Of King Lear, e c’è l’Eric
Taylor di Joseph Cross, brano proveniente dal suo Shameless
Love (1981) e qui rivisitato rimuovendo circa un minuto rispetto allo
svolgimento originale del pezzo ma guadagnando un piccolo universo di
suggestioni dolorose, estrinsecate con qualche percussione leggera, un
controcanto femminile e la voglia irrefrenabile di restare appiccicati
a una piccola umanità - quella di emarginati, sbandati, disgraziati e
sognatori rivolti alla luna - senza più neanche uno straccio di futuro
sul quale scommettere. Se, come ragionava lo scrittore israeliano David
Grossman, "la mancanza di volto di questa epidemia" ci ha fatto
apparire "il nostro essere", tutto a un tratto, "fragile
e indifeso", la resistenza culturale di Gone e di altri album
concepiti nella stessa maniera, cioè aggrappandosi al mestiere e al crudo
realismo di una narrazione rock tagliata da folk, country e reminiscenze
irlandesi, alla ricerca di umanità e compassione di una Cadillac
Hearse (talkin’ countreggiante con qualche debito verso il
primo Todd Snider o il suo maestro Jerry Jeff Walker) dall’umorismo rootsy,
essenziale nel respingere la sfacciataggine di qualsiasi malessere, assolve
al nobile compito di non arrendersi al disfacimento della morale e dell’estetica
(sono poi la stessa cosa) cui assistiamo giorno dopo giorno.
Così, l’introduzione e il congedo di A Dream (più vaporosa d’archi
la prima, più asciutta la seconda), il fingerpicking tradizionalista di
Carry Us Away o quello accorato e meditativo di 25 Trees,
l’intreccio di pianoforte e sei corde acustiche nella toccante Laurel
Pearl o il passo magistrale della citata title-track rompono
il silenzio imposto dalle sofferenze e dalla perdita ricercando una connessione
con il tempo perduto, approfondendo fatti e sentimenti, mettendo a confronto
passato e presente, prendendo in mano (per districarli o collegarli di
nuovo) i fili della memoria. Confermando come, malgrado le morti e solidarietà
smarrita, il benefico contatto con una canzone d’autore in grado di esprimere
la voglia di capire e non dimenticare non sia mai venuto meno. E se per
voi la canzone d’autore ha ancora un senso, allora Gone e Tim Grimm
- principe in (adorabili) stracci di un’aristocrazia folk-rock della quale
s’è perso lo stampo - fanno al caso vostro.