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Tim Grimm
Gone
[Vault rec./Appaloosa2021]

Sulla rete: timgrimm.com

File Under: Mondi perduti


di Gianfranco Callieri (09/11/2021)

«Gone», ossia «assorto», «coinvolto» e «infatuato», addirittura (con strana dissonanza ossimorica) «morto» e anche «incinta», ma soprattutto «andato», «dissolto», «perduto» o «rovinato». A essere andato in avaria, nel tredicesimo album di Tim Grimm, è il mondo per come l’avevamo conosciuto, sbriciolato da virus, inquinamento, corruzione, trascuratezza, realtà concreta di orrore e dolore. Senza darlo troppo a vedere, perché alzare la voce o ergersi a tribuno della decadenza contemporanea non sarebbe in alcun modo compatibile alle corde umili e prosaiche del personaggio, il Grimm di Gone prova a raccogliere, sottovoce, le lacrime dell’umanità offesa, nel caso della magistrale title-track - ballata rock ammantata di senso delle radici come avrebbero potuto fare i poeti di secoli lontani - rallegrandosi che a ogni latitudine del pianeta possa esserci qualcuno per cui le strofe di Angel From Montgomery o It’s A Big Old Goofy World, con ovvio riferimento a due canzoni dello scomparso John Prine, rappresentino altrettanti tesori da conoscere a memoria.

Prine non è l’unico degli amici e colleghi scomparsi negli ultimi mesi a venire a galla durante l’ascolto di Gone: ci sono anche David Olney e Michael Smith, evocati nell’elegante folk-rock alla John Gorka di Dreaming Of King Lear, e c’è l’Eric Taylor di Joseph Cross, brano proveniente dal suo Shameless Love (1981) e qui rivisitato rimuovendo circa un minuto rispetto allo svolgimento originale del pezzo ma guadagnando un piccolo universo di suggestioni dolorose, estrinsecate con qualche percussione leggera, un controcanto femminile e la voglia irrefrenabile di restare appiccicati a una piccola umanità - quella di emarginati, sbandati, disgraziati e sognatori rivolti alla luna - senza più neanche uno straccio di futuro sul quale scommettere. Se, come ragionava lo scrittore israeliano David Grossman, "la mancanza di volto di questa epidemia" ci ha fatto apparire "il nostro essere", tutto a un tratto, "fragile e indifeso", la resistenza culturale di Gone e di altri album concepiti nella stessa maniera, cioè aggrappandosi al mestiere e al crudo realismo di una narrazione rock tagliata da folk, country e reminiscenze irlandesi, alla ricerca di umanità e compassione di una Cadillac Hearse (talkin’ countreggiante con qualche debito verso il primo Todd Snider o il suo maestro Jerry Jeff Walker) dall’umorismo rootsy, essenziale nel respingere la sfacciataggine di qualsiasi malessere, assolve al nobile compito di non arrendersi al disfacimento della morale e dell’estetica (sono poi la stessa cosa) cui assistiamo giorno dopo giorno.

Così, l’introduzione e il congedo di A Dream (più vaporosa d’archi la prima, più asciutta la seconda), il fingerpicking tradizionalista di Carry Us Away o quello accorato e meditativo di 25 Trees, l’intreccio di pianoforte e sei corde acustiche nella toccante Laurel Pearl o il passo magistrale della citata title-track rompono il silenzio imposto dalle sofferenze e dalla perdita ricercando una connessione con il tempo perduto, approfondendo fatti e sentimenti, mettendo a confronto passato e presente, prendendo in mano (per districarli o collegarli di nuovo) i fili della memoria. Confermando come, malgrado le morti e solidarietà smarrita, il benefico contatto con una canzone d’autore in grado di esprimere la voglia di capire e non dimenticare non sia mai venuto meno. E se per voi la canzone d’autore ha ancora un senso, allora Gone e Tim Grimm - principe in (adorabili) stracci di un’aristocrazia folk-rock della quale s’è perso lo stampo - fanno al caso vostro.


    


<Credits>