Colonna sonora di un’anima
errante, come lo definisce lo stesso Carl “Buffalo” Nichols, l’omonimo
album di esordio di questo autore e chitarrista cresciuto fra il Texas
(dove ora risiede, Austin naturalmente) e il più freddo Wisconsin (Milwaukee)
dice molte cose, e tutte importanti, in uno spazio ristretto: otto brani,
mezz’ora scarsa di musica, quello che un tempo sarebbe stato un primo
assaggio o un fugace ep di presentazione al mondo, è invece un disco fatto
e finito che mostra la personalità adulta di un musicista allevato dalla
solitudine, dal sentirsi emarginato, “black man in a white world” avrebbe
detto qualcuno.
L’isolamento però arriva anche dall’avere scelto consapevolmente, dopo
anni di tentativi in rock band della scena locale di Milwaukee e persino
allontanamenti volontari tra Berlino e l’Ucraina, senza una vera e propria
direzione, di ripercorrere il linguaggio antico del blues, con la convinzione
quasi ostinata di renderlo ancora attuale, cronaca di questo tempo e delle
sue ingiustizie. C’è una canzone in particolare a sancire questo parallelo,
si intitola Another Man, è potente
pur usando pochissime armi musicali, ha il fantasma di George Floyd che
la percorre in lungo e in largo, ma anche la spietata osservazione di
un’America che non è cambiata, da quando cent’anni prima la nonna di Buffalo
Nichols doveva “tenere la lingua a freno” se non voleva finire nei
guai, e un oggi che non pare affatto avere stabilito una parità nei diritti
e nell’esistenza di un afro-americano.
Il primo disco di un solista blues da vent’anni a questa parte per la
Fat Possum, come annuncia trionfalmente un’etichetta che nel frattempo
ha deciso di frequentare lidi più inclini all’indie rock e alle evoluzioni
della canzone pop moderna, è in verità assai distante dallo stesso suono
che ha caratterizzato così esplicitamente la casa discografica ai suoi
primordi. Qui non troverete, se non in un fugace sprazzo (l’elettrica,
ossuta e limacciosa Back on Top), il sudore del downhome blues
e dei juke joint, e neppure i fantasmi dei maestri Burnside e Kimbrough:
Buffalo Nichols vuole recuperare l’essenza di un country blues che si
fa racconto sociale, scendendo in strada per narrare l’esistenza personale
del musicista e per metterla a confronto con le storture dell’umanità.
Così facendo predilige il vibrare acustico di una National guitar, il
respiro del Delta che incontra l’arte vagabonda dei folksinger, annunciando
il viaggio solitario con il manifesto di Lost
& Lonesome.
L’intera prima parte della fulminea “predica” di Buffalo Nichols si crogiola
in queste atmosfere: un beat minimale sospinge le ombre di un’ossessiva
Living Hell e della più circolare
melodia di Sick Bed Blues, mentre This
Things placa l’anima in subbuglio coinvolgendo un dolce violino
ad evocare una squisita melodia rurale, in cui la terra adottiva del Texas
sembra giocare un ruolo fondamentale. Lo stile di Nichols è in equilibrio
perfetto (e di una maturità sorprendete per essere al debutto) tra quella
generazione di nuovi tradizionalisti blues che ha avuto le sue punte di
diamante in Alvin Youngblood Hart e Corey Harris (legame da sentire nel
lavorio della slide e delle accordature di How
to Love) e le modulazioni d’autore di personaggi quali Eric
Bibb o Keb Mo’ (la citata Another Man e il suo apporto lirico,
così come, su un altro versante, il finale elettrico e più arrangiato,
con tanto di organo, di Sorry It Was You), sebbene sia la voce,
calda, pastosa e stentorea in ciò cha ha da esprimere, a bagnarsi nel
grande fiume di questa storia pluri-centanaria chiamata blues.
Lo fa prendendo una posizione che vuole esprimere semplicità nell’approccio
e intensità nei versi, persuaso che ci sia ancora spazio per questa musica
sul teatro della contemporaneità e non nella consolazione di un museo,
dove magari restare a contemplarla.