Le potenzialità erano già
tutte racchiuse nell’esordio del 2012, There
Is a Bomb in Gilead, il disco che svelava il southern punk
rock dalla coscienza socio-politica di Lee Bains e dei suoi Glory
Fires, da Birmingham, Alabama. Mancava soltanto la convinzione dei propri
mezzi espressivi, la capacità di allargare la vista e di osare anche negli
arrangiamenti, senza chiudersi in un ghetto di rabbia elettrica e carica
eversiva che aveva forse “macchiato” e reso meno fruibili (ma a sprazzi
irresistibili, va detto) le opere seguenti, i pur interessanti Dereconstructed
(il più chiassoso e ribelle) e Youth
Detention (quello che mediava fra passato e presente della
band).
Introdotto dall’invocazione e chiuso dall’epilogo della stessa canzone,
l’omonima Old-Time Folks servita in
due versioni speculari fra elettrico e acustico, il quarto album di studio
della formazione, prodotto ad Athens con l’intervento provvidenziale di
David Barbe, li colloca sulla scia nobile delle nuove voci rock del Sud,
seguendo le piste già battute da Drive-By Truckers (inevitabile l’aggancio,
vista la presenza dello stesso Barbe e la partecipazione di Jay Gonzalez
alle tastiere e organo) e Lucero. Il trio dell’Alabama (oltre al leader
Lee Bains, i fratelli Adam e Blake Williamson, rispettivamente al basso
e alla batteria) si inscrive di diritto in quel mondo di rock’n’roll band
che racconta l’altra faccia del sogno americano mai realizzato, partendo
dal basso, dalla gente comune, da un afflato popolare e antagonista che
raccoglie le storie della “ordinary people” incontrata nel loro incessante
viaggio musicale sulla strada.
Bains assume su di sé dunque il ruolo di un narratore del presente, filtrando
queste canzoni attraverso la sua vicenda personale, il suo essere cresciuto
in una terra di continue contraddizioni, come evidenza il primo singolo
scelto, la poderosa cavalcata southern rock di The
Battle of Atlanta, riferimento storico alla battaglia della
Guerra Civile condotta dal generale unionista Sherman che ha cementato
nel tempo quel sentimento di rivalsa e orgoglio “sudista”. Bains e compagni
ovviamente ribaltano completamente la prospettiva, cercando nuovi significati
ed evidenziando in tutto il disco la loro visione in aperto conflitto
con i nuovi venti populisti dell’era Trump, ma più in generale con un’America
che vista dal centro del potere di Washington, qualunque esso sia, appare
lontana dalle rivendicazioni degli esclusi, delle minoranze, dei lavoratori
più umili.
Da qui arrivano le invocazioni di (In Remembrance
of) The 40 Hour Week, fiero rock’n’roll dagli orizzonti operai,
mondo che Lee Bains stesso conosce benissimo, visto la sua occupazione
quotidiana nel campo dell’edilizia, le richieste comunitarie di una appassionata,
innodica Rednecks, o ancora la trascinante
saga soul rock, con sezione fiati a ingrossare le fila, di Outlaws
e la limacciosa e strisciante scenografia di Done Playing Dead.
È esattamente l’atmosfera più bilanciata e la cura dei dettagli in studio
di registrazione a rendere Old-Time Folks un disco efficace, classico
e tra le migliori opere uscite di recente dal Deep South. Una sintesi
di passato e presente del rock indipendente di quelle latitudini che sposa
la sensibilità sociale dei citati Drive By Truckers in God’s a Workin'
Man, Lizard People e Post-Life con una carica punk mai
doma, che cova sotto le ceneri e di tanto in tanto scalcia per risalire
in superficie (l’esplosione di Caligula, con tutti i nomi spiattellati
senza paura), salvo trovare un angolo di riflessione che è proprio la
testimonianza di quella maturità d’autore acquisita da Lee Bains con i
suoi Glory Fires: dalla inaspettata delicatezza pianistica di Gentlemen
al fragile raccolgimento folk di Old Friends.
Sferzante, senza peli sulla lingua, Old-Time Folks richiama
i suoi ascoltatori a quell’unione e speranza che fanno la forza di una
comunità: un messaggio che cadrà nel vuoto forse, lontano dalle attenzioni
del grande pubblico, ma è ancora una volta un atto di resistenza che appartiene
solamente al rock’n’roll più vitale.