Sulla carta
poteva restare una (splendida) estemporanea ricerca sulla sempre affascinante
materia folk, nata un po’ dal caso e un po’ da amicizie musicali comuni;
è invece, con somma gioia, un progetto che prosegue e rilancia il suo
percorso dentro la tradizione, questa volta per traghettarla dal passato
al presente. Se infatti l’omonimo Bonny
Light Horseman, due anni fa, trovava le ragioni della sua esistenza
artistica nel reinventare vecchi brani, partendo dall’eredità del folk
inglese, così poi come era giunto sulle coste atlantiche del Nuovo Mondo,
oggi Rolling Golden Holy propone dieci episodi originali,
frutto di una totale immersione e condivisione dei tre animatori del gruppo:
Anais Mitchell, Eric D. Johnson, Josh Kaufamn.
Il cristallino incanto della prima lo conosciamo, e soltanto pochi mesi
fa la Mitchell è anche tornata a proporsi in veste solista con l’atteso
omonimo album;
Johnson (ex Fruit Bats e anche lanciato in una sua carriera) resta la
spalla ideale, con il timbro quasi femminile della sua voce che armonizza
e si alterna da protagonista con la stessa Anais; Kaufman è il mago dei
suoni e il cesellatore infaticabile dei dettagli, produttore, musicista
e terzo incomodo che dona una volta di più a queste registrazioni quel
suono nitido, estatico che avvolge il tutto. Risultato di due sessioni
di registrazione, una tenutasi presso il Long Pond studio di Aaron Dessner
(The National) e una nella ribattezzata casa del trio, Dreamland,
fra i boschi intorno a Woodstock, Rolling Golden Holy dimostra
come i Bonny Light Horseman non siano un fuoco di paglia, né tanto
meno un passatempo, semmai un piccolo miracolo di sensibilità comuni che
unendosi danno vita ad una chimica musicale riconoscibile e preziosa per
il folk americano di questi anni.
C’è la sinuosa onda di Exile in apertura
a dare il segno distintivo all’intera operazione, che adesso, a detta
dello stesso gruppo, volge lo sguardo verso orizzonti californiani (non
occorrono spiegazioni per il tenue trasalire acustico di un brano chiamato
proprio California), gradazioni più
armoniose, ma fondamentalmente conservando la matrice tradizionale di
partenza. È soltanto rivista e espansa da un suono più immaginifico e
rapito, ricco di elementi naturali e sospiri universali, quelli riversati
dalla voci della Mitchell e di Johnson nella dolcissima Comrade Sweetheart,
e così il trio al completo (con l’aggiunta della batteria di JT Bates
del basso di Mike Lewis) fra il tremolio di Summer Dream e i sussulti
di una irresistibile Sweetbread, che
intreccia il tono rurale del banjo con un sax (il citato Mike Lewis) che
divaga su note jazzy.
Sono ancora una volta il carattere commovente e la grazia dell’esecuzione
di queste ballate a renderle sospese, fuori del tempo, che siano il mite
fingerpicking delle chitarre in una agrodolce Gone By Fall o l’intimità
a cuore aperto che la Mitchell riesce sempre miracolosamente a infondere
alle sue interpretazioni, qui sublimate dalla ballad d’amore Fleur
de Lis o dal trait d’union con quella tradizione inseguita e rinnovata
in Fair Annie, prima che una rara chitarra elettrica, più acidula,
accompagni il canto corale di Cold Rain and Snow. Il titolo ricalca
un famoso traditional più volte riproposto anche dal mondo rock (per esempio
dai Grateful Dead): i Bonny Light Horseman scrivono una loro canzone originale,
ma non apparre affatto casuale l’omonimia, a sancire un collegamento profondo
e un disco altrettanto denso di significati.