La bellezza
salverà il mondo, lo affermava il principe Myskin ne “L’Idiota” di Dostoevskji
e lo ribadisce il filosofo Todorov, oltre cent’anni dopo, nel saggio in
cui affida alle arti il compito di scrutare il sostrato umano e ricercare
ossessivamente l’assoluto, la perfezione del vivere. E se questa è la
premessa maggiore, il sillogismo che inevitabilmente se ne ricava è che
la musica salverà il mondo. Ora, per quel che ci riguarda, al di là delle
ovvie e molteplici implicazioni di carattere ermeneutico, la nostra ricerca
della grazia inizia e finisce in quegli ambiti in cui il nostro spirito
attinge la forza per elevarsi, per illuminarsi, per sublimarsi.
Tutto ciò per dire che uno come Bill Callahan è merce davvero preziosa,
proprio nella misura in cui si erge ad ambasciatore del bello e ci consegna
una serie di composizioni in grado di cambiare i nostri percorsi, di carpire
la nostra essenza, di spingerci in una dimensione immaginifica, ben oltre
il mero assemblaggio di suoni e parole. Questo Ytilaer,
anche più dei precedenti splendidi lavori del cantautore di Silver Spring,
Maryland rappresenta il sentire universale del suo autore, la sua personalissima
versione della “realtà” contemporanea (Ytilaer è Reality letto al contrario)
che vibra all’interno di strutture fascinose e ambientazioni accoglienti,
comunque ripulite da ogni eccesso e molto lontane da visioni distorte
e pessimistiche. Perché se è vero che il suo intento era quello di “risvegliare
le persone, il loro amore, la loro gentilezza, la loro rabbia, di far
funzionare una qualsiasi cosa in loro”, è anche vero che quello che occorreva
“per uscire da questo stato ipnagogico”, come da lui stesso dichiarato,
era utilizzare una “rabbia migliore”. E così se Nick Cave ha assunto il
ruolo dell’asceta, cantore della crudeltà del mondo e Nick Drake ha a
suo tempo investito in un’idea “naturalistica” dell’arte, Bill ha impostato
la ricerca della bellezza sulla spiritualità “buona”, a volte onirica,
a volte decisamente pragmatica.
Quasi inutile, con simili premesse, sottolineare lo splendore che avvolge
i dodici brani di questo nuovo album, canzoni che scorrono compatte lungo
i binari di un folk rarefatto, molto molto articolato, arricchito da un
sotteso misticismo e da un’istintività interpretativa unica. Composizioni
di una musicalità avvolgente e dai variegati intrecci sonori che, a dire
il vero, è riduttivo inscatolare in un qualsiasi archetipo. Jazz, psichedelia,
progressive, rock, metteteci un po' quel che vi pare, gli umori si aggrovigliano
ed alla mente vengono, in rapida successione, anche i compianti Vic Chessnut
e Lou Reed o magari Robert Wyatt o, ancora, Bonnie Prince Billy. La voce
di Bill è poi il quid pluris che sposta un gradino ancora più alto il
livello compositivo, mentre l’intervento di gente della levatura di Jim
White (batteria), Sarah Anna Phillips (piano), Matt Kinsey (chitarra)
ed Emmett Kelly (basso), conduce il tutto direttamente nella stratosfera.
Impossibile scegliere i momenti migliori, ognuno dei tasselli di questo
album è funzionale al tutto, imprescindibile. Potremmo citare la grandiosa
First Bird ma poi dobbiamo cedere
al brillante classicismo di Coyotes
o al mood di Everyway e di Naked Souls la quale cattura
per l’eleganza delle forme, per poi concentrarci sulla serie finale che
produce una scia di luce accecante e ci lascia improvvisamente ed improvvidamente
orfani di cotanta bellezza che, se non salverà il mondo, inteso quale
umanità, certamente porterà il nostro di mondo, per qualche tempo almeno,
in un porto molto più sicuro, al riparo dalle brutture della realtà contingente.
Bill Callahan è in uno stato di grazia esagerato e Ytilaer,
per chi non lo avesse ancora capito, è al momento il disco dell’anno,
per ampio distacco.