Leggo in
questi giorni dibattiti accesi intorno alla domanda: è legittimo che un
songwriter modifichi il proprio modo di comporre con l’avanzare dell’età
e con l’esperienza acquisita? Un quesito che ha un vizio di fondo talmente
macroscopico da renderlo nullo. Comunque sia The Delines sembrano
restarne indifferenti visto che, giunti al quarto disco - considerando
anche l’anomalo Scenic Sessions – non cambiano di una virgola la
loro musica. E che musica. Qui risiede forse la risposta all’interrogativo,
per chi vuole capire. La band di Portland, Oregon, è di quelle che si
fanno ritrovare e quando ascolti un nuovo lavoro pensi “eccoli qui, mi
mancavano” perchè le loro sonorità, così come le tematiche dei testi,
creano dipendenza affettiva.
Con The Sea Drift si ripropone già nel titolo il tema dell’acqua,
filo conduttore fin dai tempi fluviali dei Richmond Fontaine, quando le
autostrade suonavano come fiumi e ci si sedeva sulle rive di un affluente
inquinato come il Willamette per provare a ricostruire un’esistenza. Poi
i fiumi più o meno arrivano al mare, alcuni sfociano nel Golfo del Messico
ed eccoci pervenuti al nuovo disco, annunciato nelle vesti di “una raccolta
di canzoni e di storie trovate andando alla deriva, up and down, lungo
la Costa del Golfo”. E il Golfo è lì sulla bellissima copertina, un luna
park marino che profuma di Coney Island ma in realtà sta a Galveston,
Texas orientale. Il Golfo è presente anche nello strumentale The Gulf
Drift Lament in chiusura di disco, con la tromba che Cory Gray sfiora
appena, a conferma che The Delines nei brani strumentali si superano:
sono colonne sonore in miniatura che s’insinuano tra i cantati, proprio
come fa l’altro strumentale Lynette’s Lament, cui spetta il compito
di ricongiungere il Willy Vlautin compositore con lo scrittore.
Perché Lynette è la complessa protagonista del suo ultimo romanzo La
notte arriva sempre (Jimenez Edizioni 2021) e perché questi undici
nuovi brani sono a tutti gli effetti racconti brevi, carverianamente asciutti,
di individui ai margini e della loro vita agra, della motel life, di fughe,
periferie metropolitane e highways inquiete. The Sea Drift
continua questa narrazione, ordinata e attenta alla circolarità: se si
chiude con il lamento del golfo, dal canto suo il brano di apertura Little
Earl (consegnato alla rete come singolo apripista) racconta
un’insanguinata fuga che si consuma proprio lungo quella costa e rilascia
una dichiarazione che più metaforica non si può: “Non ha mai guidato di
notte e continua a perdersi”. C’è invece aria di ritrovamento nella mezz’ora
abbondante di The Sea Drift, a partire dalla produzione di John
Askew fino ai musicisti di sempre: il jazz drummer Sean Oldham, il bassista
Freddy Trujillo, oltre al già citato Cory Gray alla tromba, tastiere e
chitarre. Ma è soprattutto la cantante Amy Boone che ritroviamo
del tutto, perché questo è il primo disco di materiale completamente nuovo
inciso dopo il terribile incidente d’auto del 2016, che aveva posto una
seria ipoteca sulla sua permanenza nella band. Ma Amy ha uno spirito combattivo
ed eccola di nuovo in sella. La band l’ha aspettata e anche questa è una
storia bella, che meriterebbe di essere raccontata. La voce di Amy Boone
è essenziale all’economia di The Delines, si fonde alla perfezione con
lo spartito e con gli arrangiamenti misurati e insieme creano composizioni
di incantevole raffinatezza, evocative come poche.
Per questo lavoro si sono ispirati – parola di Vlautin – a Tony Joe White,
passione che Willy ed Amy hanno in comune; pare che durante la preparazione
del disco le loro conversazioni tornassero spesso alla Rainy Night
in Georgia che il musicista della Louisiana incise nel 1969. D’altronde
non c’è dubbio che la musica di The Delines sia radicata nel passato,
ma niente di stantio o di eccessivamente tradizionale, piuttosto suggestioni
profonde ottenute con pochi tocchi, come in Hold Me Slow oppure
in All Along the Ride, un brano quest’ultimo
che ripropone le sonorità avvolgenti di Roll Back my Life e di
Waiting on the Blue (da The
Imperial).
Nessuno si scandalizzerà, mi auguro, se considero Willy Vlautin cantore
della malinconia. Rivalutiamolo, dai, questo sentimento, che è tra i più
autentici e artisticamente prolifici che cuore umano possa provare. Ho
il sospetto che l’autore stesso approverebbe, se già nel 2009 intitolava
una canzone Maybe We Were Both Born Blue (Forse siamo nati entrambi
malinconici). E allora selezioniamo serenamente la traccia numero sette,
quattro minuti di languore e di note sospese che sono il capolavoro del
disco. Già il titolo Surfers in Twilight
è suggestivo. Perché ce li vedete dei surfisti, iconograficamente giovani
e adrenalinici, con un crepuscolo come quinta? Occorre una sensibilità
superiore.