Rispetto a tanti eroi dei
bassifondi del mercato discografico degli anni ottanta, l'X John Doe
è un piccolo caso particolare di continua maturazione. Con la band, ormai
col fiato corto di chi aveva dato tanto in breve tempo, nel 1989 Doe aveva
inaugurato la sua ormai lunga carriera solista con un disco di discreto
mainstream-roots come Meet John Doe, e mentre gli X chiudevano
la loro storia con un assai poco degno testamento (Hey Zeus! del
1993, ma fortunatamente nel 2020 Alphabetland
ha ripreso il percorso con rinnovato vigore), lui faceva un po’ fatica
a trovare non solo un suo spazio, ma anche una sua personale modalità
espressiva.
I suoi anni Novanta, spesi con la sigla The John Doe Thing, restano poco
memorabili, e si è dovuto attendere il decisivo passaggio alla Yep Rock
nel 2005 con album come Forever Hasn't Happened Yet e A Year
in the Wilderness per risentirlo in azione con produzioni sempre più
sicure e personali, fino ad arrivare a dischi davvero belli come Keeper
del 2011 o Westerner
del 2016. Per questo motivo non sorprende che anche questo Fables
in a Foreign Land sia un disco di gran spessore, perché il suo
aver ormai definitivamente abbracciato un linguaggio folk (o da cantautore
di area texana) non sembra davvero una facile scappatoia di un artista
senza più troppo da dire, quanto il naturale porto d’attracco scoperto
dopo una lunga navigazione. E il nuovo album calca ancor più la mano sul
concetto, sviluppandosi in una sorta di concept sull’America del 1890,
registrato con un trio composto dal bassista Kevin Smith (visto spesso
alle spalle di Willie Nelson) e il batterista Conrad Choucroun, con un
sound decisamente scarno ed essenziale che non dà mai però la sensazione
di essere povero o raffazzonato.
E Doe si conferma anche ottimo performer in grado di reggere una classicissima
folk-song come Down South (impreziosita
dal violino di Carrie Rodriguez), ma sono le canzoni ad essere di gran
livello, vuoi per quel gusto alla John Steinbeck di raccontare con freddezza
quasi giornalistica la tragedia dei pionieri della provincia americana,
vuoi perché ad aiutare a trovare le parole giuste è intervenuto persino
un gigante come Terry Allen, la cui mano si sente eccome nell’iniziale
Never Coming Back. Il disco spazia
comunque nel tex-mex alla Ry Cooder di Guilty Bystander (con la
fisarmonica di Josh Baca), brani in misto tra spagnolo e inglese (El-Romance-o)
e cavalcate western come The Cowboy and The Hot Air Ballon o Travellin’
So Hard. Il ritmo generale in ogni caso è da racconto sussurrato davanti
al camino, perché anche un vecchio combattente del rock come lui, alla
soglia dei 70 anni, ha probabilmente più voglia di raccontare alcune storie
raccolte nel corso della sua avventurosa esistenza, piuttosto che infiammare
i palchi con i vecchi amici di un tempo. Che comunque sono sempre lì che
lo aspettano, perché la storia degli X non è finita, ma anche se lo fosse,
quella del John Doe odierno basta a non farsi prendere troppo dalla nostalgia.