Segnalato fin dagli esordi
come uno dei potenziali talenti della canzone roots americana per gli
anni a venire, con una nomination ai Grammy in tasca per l’album indipendente
From
the Ground Up, John Fullbright aveva improvvisamente
interrotto i segnali discografici, lasciando il sospetto che avessimo
tutti preso un abbaglio. Sono otto lunghe stagioni, infatti, quelle che
separano il secondo disco di studio, l’intimo a cantautorale Songs,
dal qui presente The Liar, periodo passato volutamente a
sottrarsi dal centro della scena. È lo stesso Fullbright a non spiegarsi
bene cosa sia successo, con qualche candida dichiarazione di rito, molto
probabile però che sia stata una reazione, più o meno consapevole, alle
troppe promesse che qualcuno aveva caricato sulle sue spalle di giovane
folksinger dell’Oklahoma.
Ecco allora la soluzione: fare un passo indietro, trasferirsi nella “grande
città”, a Tulsa, partecipare a concerti e incisioni da uomo ombra, respirando
l’aria buona di una scena Americana locale molto vivace. Ha atteso tempi
migliori, ha scelto il momento giusto, si è circondato di amici musicisti
conosciuti sul luogo (Jesse Aycock, Aaron Boehler, Paul Wilkes, Stephen
Lee e Paddy Ryan tra i tanti) ed è così tornato a fare sul serio. Per
fortuna, aggiungiamo noi, visto che The Liar si rivela fin dalla
partenza il lavoro più espressivo e completo nel mettere in mostra il
campionario del songwriter di Bearden, Oklahoma, comunità rurale di centotrenta
anime che sta nei pensieri e nella crescita di Fullbright, figlio legittimo
di quella terra di Okies, come li chiamava Woody Guthrie.
The Liar è il disco che Todd Snider non riesce più a incidere da
anni e che Jason Isbell potrebbe tornare a concepire se dedicasse più
tempo alle canzoni che non alla perfezione dei suoni. Ma le capacità,
chiariamolo, sono tutte e soltanto di John Fullbright, musicista che essendo
partito dalla composizione al piano e usandolo spesso nella conduzione
delle melodie, ha un approccio meno folkeggiante del previsto, mettendo
insieme Bob Dylan e Randy Newman, il Texas di Townes Van Zandt con la
Louisiana di Dr. John. Così entriamo mani e piedi nelle sonorità di The
Liar, introdotti dal passo epico e dai crescendo di Bearden
1645 (e sì, qui Isbell farebbe davvero carte false per
scrivere un pezzo così), da un suono più elettrico e full band (Paranoid
Heart, la divertente Social Skills) che mette da parte un eccessivo
minimalismo che appesantiva il precedente Songs, scegliendo fra
vecchie e nuove composizioni (i languori country d’autore di Unlocked
Doors arrivano dal debutto Live at the Blue Door), una
schietta incisività che alterna confessioni amorose, chiacchiere con Dio,
tratti esistenziali e qualche commento sociale.
Tra classico e moderno, Fullbright strizza l’occhio a vecchi valzer che
piacerebbero a Willie Nelson (Where We Belong, Blameless),
tirate blues rancorose (la waitsiana Poster Child)
e dai forti accenti sudisti (il finale di Gasoline,
l’esplosione gospel nel finale di Safe to Say) e qualche struggente
ballata pianistica che non manca mai nel suo repertorio (Stars,
Lucky), capace peraltro di esaltare fino allo spasmo una voce,
quella del protagonista, che è un’altra delle frecce preziose al suo arco,
in grado di distinguerlo dal grande guazzabuglio di songwriter in circolazione
nell’America profonda. Sempre che abbia voglia di dare più continuità
al suo gesto artistico e non “sparisca” di nuovo da sotto i riflettori.