Sognano l’America dai pub
di Londra e incidono il loro quarto album negli studi di Edwyn Collins
(Orange Juice), nelle Highlands scozzesi: The Hanging Stars firmano
per la Loose music, l’approdo più naturale possibile per la loro proposta
artistica, pubblicando l’album che segna la maturità del suono che gira
nella loro testa da qualche anno a questa parte. "London cosmic country
folk band" si definiscono senza infingimenti sulle loro fonti di
ispirazione e se già il capitolo precedente, A
New Kind of Sky, metteva in chiaro ascedenze e “debolezze”,
Hollow Heart è quello che lo sviluppa con una visione più coerente
e personale, fermo restando che il senso di nostalgia che pervade il gesto
musicale della band non scompare dal centro della scena.
Gli effluvi californiani si spandono ancora tutti intorno alle composizioni
di Richard Olson, principale songwriter, mentre Sam Ferman (basso), Paulie
Cobra (batteria) e Patrick Ralla (chitarre, banjo, tastiere) definiscono
i contorni di questi dieci episodi nati in un tempo di incertezze, lo
stesso che ha portato una vena dark nelle liriche e il desiderio di esorcizzarne
i fantasmi con la luminosità delle chitarre e la speranza dell’amore.
L’elemento che fa da collante musicale e da richiamo di una California
immaginata è infine la pedal steel del membro aggiunto Joe Harvey-Whyte,
là da qualche parte a inseguire il gesto psichedelico di "Sneaky Pete"
Kleinow nei Flying Burrito Brothers: a loro sembra ricollegarsi lo zigzagare
della melodia di Ava, incipit di un
disco dalle armonie sognanti che tracciano un ponte fra l’Inghilterra
e l’Ovest americano.
Che il gruppo abbia perfezionato la sua alchimia sonora è testimoniato
dalla presenza di un country rock lisergico che ammicca al passato, ma
reclama la sua personalità: l’apice sembra essere raggiunto dal primo
singolo Black Light Night, sogno un
po’ alcolico che riassume le ambientazioni di Hollow Heart. È anche
uno degli episodi più elettrici, a braccetto con le spirali cosmiche di
Hollow Eyes, Hollow Heart, roba che avrebbe fatto impazzire i Rain
Parade e tutti i “nuovi psichecelici” che animavano la giovane California
degli anni Ottanta, così come I Don’t Want to Feel So Bad Anymore
potrebbe persino uscire dal cilindro magico degli australiani Church.
I rimandi sono inevitabili perché è l’intera musica degli Hanging Stars
ad essere una sorta di “madeleine” pronta ad evocare ricordi perduti:
Weep&Whisper è un tramonto sulla
Baia di Frisco con una liquida chitarra che sa di Grateful Dead campagnoli,
You’re So Free un altro delizioso
scampolo di pop psichedelico uscito dalla macchina del tempo della West
Coast, mentre Radio On getta lo sguardo dai Byrds verso i Big Star.
La sintesi personale apportata dagli Hanging Stars è probabilmente quella
di risucire a rileggere questa mitologia con il carattere tutto inglese
che emerge, per esempio, nella raggiante Ballad of Whatever May Be
o nel finale sospeso e dolcemente onirico di Red Autumn Leaf,
in cui ci potremmo quasi immaginare Verve e Stone Roses in una improbabile
seduta di registrazione a San Francisco, alba del 1970.