Succede così
a volte, ci sono artisti che magari sono sulla scena da anni vivendo sul
passaparola tra addetti ai lavori e pochi ascoltatori che li seguono con
passione, e poi improvvisamente arriva il disco per cui tutti si accorgono
di loro. Capita anche ad un autore come Michael Head, sulla scena
fin dal 1984, prima con la cult-band britannica dei Pale Fountains (due
album tra il 1984 e il 1985, il singolo Thank You entrò anche nella
classifica britannica), poi con gli Shack, creati insieme al fratello
John Head (altri sei album tra il 1987 e il 2006, ma sono ufficialmente
ancora attivi), e da titolare prima con due lavori con gli Strands, e
dal 2017 altri due con la Red Elastic Band.
Nati in occasione dell’album Adiós Señor Pussycat, la sigla cela,
tra gli altri, alcuni veterani della musica britannica come il trombettista
Andy Diagram (che si divide il compito con Martin Smith), membro ufficiale
dei James nel loro periodo d’oro a cavallo tra gli 80 e i 90, ma musicista
sentito anche con i Pere Ubu, o il bassista Peter Wilkinson, membro degli
Echo & the Bunnymen per l’album Siberia nel 2005. In ogni caso
Dear Scott pare davvero il disco che può finalmente rendere
giustizia a Michael Head, perché parte di fatto dalla stessa ispirazione
di sempre, inchiodata su certo sofisticato pop da classifica degli anni
60, quindi non scevro di estetismi e orchestrazioni. Parliamo quindi di
un autore che registra sempre con le fotografie di Burt Bacharach e Lee
Hazlewood sulla scrivania (e, volendo, potremmo anche immaginarci il titolo
dedicato a Scott Walker, la cui lezione scorre sicuramente in queste canzoni),
ma anche di grandi autori di soundtrack come John Barry aggiungerei in
certi casi.
E parliamo anche di un cantante che è nato comunque in una tradizione
di pop inglese chitarristico e diretto alla Smiths, ma che ha altresì
un approccio alla scrittura quasi da folksinger anni 70, tra un Phil Ochs
più orchestrato o un David Ackles più complesso, e l’unione delle due
cose lo porta a scrivere pop-songs che rasentano la perfezione. Qui poi,
al di là della produzione pulitissima, quanto però calda, di Bill Ryder-Jones
(ex Coral, oltre che affermato solista), ci si mette anche quel tocco
di citazionismo letterario nel creare una sorta di concept-album dedicato
alla vita di Francis Scott Fitzgerald, autore che con tutta evidenza non
finirà mai di pesare come un macigno sulla cultura americana e non solo,
visto che Head è inglese. Ne nascono canzoni straordinarie come Kismet,
American Kid, Gino
And Rico e tante altre, tutte interessanti anche nelle liriche,
e brano dopo brano pare evidente la totale identificazione di Head, uomo
che ha passato anni a combattere un alcolismo cronico che lo ha quasi
reso incapace di portare avanti la sua carriera, con il grande scrittore
americano, anche lui spesso schiavo dell’alcool.
Quello che piace di Dear Scott è infatti il fatto di avere temi
e toni molto intimi a fronte di una produzione sontuosa e molto accattivante,
un equilibrio che solo un artista navigato poteva tenere così bene. Scopritelo,
ne vale la pena.