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Leyla McCalla
Breaking the Thermometer
[Anti- 2022]

Sulla rete: leylamccalla.com

File Under: Vari-Colored songs


di Gianfranco Callieri (21/05/2022)

Figlia del Queens newyorchese, ma di origini antillane essendo il padre uno storico attivista per i diritti del popolo di Haiti e la madre la primogenita di un ex-direttore del quotidiano socialista dell’isola, Leyla McCalla ha fatto della contestazione alla sedentarietà una ragione di vita. Tanto da andarsene, adolescente, in New Jersey, tornare poi a NY per studiare (all’università) la musica da camera, nonché approdondire l’amato violoncello e gli altri strumenti da lei prediletti (banjo e chitarra, soprattutto), passare inoltre qualche anno nelle strade di Accra, la capitale del Ghana, e trasferirsi infine a New Orleans, attratta dal multilinguismo cittadino e dalla cospicua presenza, nel Quartiere Francese, di artisti di strada in piena attività.

Non solo, perché dopo aver fatto parte, con Rhiannon Giddens, dei Carolina Chocolate Drops, e averne di nuovo incrociato i passi nell’esperienza tra ricerca etnica e suono delle radici di Songs Of Our Native Daughters, McCalla ha dato vita a diversi lavori solisti, ognuno riconducibile alle basi di un vero e proprio progetto: se il primo Vari-Colored Songs metteva in scena una variegata celebrazione della jazz-poetry contenuta nelle liriche di Langston Hughes, afroamericano e comunista, Breaking The Thermometer, oggi, prende le mosse da uno spettacolo teatrale di Kiyoko McCrae commissionato, nel 2020, dalla Duke University della Carolina del Nord, istituzione dov’è conservato l’archivio di Radio Haiti-Inter, la prima radio indipendente dell’isola e la prima, inoltre, a trasmettere in lingua creola anziché nel francese dei colonizzatori.

L’emittente ebbe una storia controversa e per nulla lineare, si trovò a sperimentare l’aperta ostilità del regime del dittatore Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier (quindi le multiple chiusure imposte dagli emissari di costui), e sembrò godere di maggior stabilità al ritorno del presidente Jean-Bertrand Aristide - un sacerdote salesiano vicino alla teologia della liberazione - in seguito al colpo di stato che ne aveva visto la deposizione nel 1991, finché Jean Dominique, direttore e fondatore della radio, e un suo dipendente non furono uccisi in un tentativo di occupazione dei loro uffici (per chi volesse approfondire, si tratta della vicenda al centro di The Agronomist [2003], un bel documentario del compianto Jonathan Demme).

Immergendosi nella raccolta di documenti (alcuni analogici, altri digitali), supporti fonografici, bobine e registrazioni poc’anzi citata, McCalla ne ha tratto una sequenza travolgente di suoni e colori, suddivisa tra rumori d’ambiente, brani d’epoca, vecchie incisioni dei programmi della radio e composizioni autografe. Tra queste ultime spiccano per intensità e riuscita il dolce folk caraibico di Vini Wé, dedicata alla storia d’amore tra Dominique e sua moglie, la giornalista Michele Montàs, e lasciata fluttuare sulle note morbide e schiumose della chitarra classica di Nahum Johnson Zdybel, il febbrile violoncello della titolare intento a far sanguinare il racconto d’esilio e fuga di Ekzile, i delicati e ondeggianti arpeggi bluesy della dolente Fort Dimanche (su di un famigerato carcere dell’epoca Duvalier). Tra le rivisitazioni, impossibile non citare You Don’t Know Me, appartenente al repertorio di Caetano Veloso (che l’aveva scritta nel Regno Unito mezzo secolo fa, quand’era un esule anche lui) e riletta in chiave decisamente rock, con tanto di roboante assolo di sei corde, e Pouki, visionaria invettiva dell’artista isolano Manno Charlemagne (cantata in coppia con la canadese Melissa Laveaux), il movimentato trattamento folk-rock cui viene sottoposto lo standard Dondinin e, sopra a tutto il resto, la memorabile poesia ambient dell’iniziale Nan Fon Bwa, firmata da Frantz Casseus, chitarrista di Port-au-Prince nonché maestro dello strumento per Marc Ribot (in senso letterale: gli zii di quest’ultimo erano amici famiglia del musicista), e qui parafrasata interpolando i rumori delle acque e i canti degli uccelli con una telefonata, tra McCalla e sua madre, sull’orgoglio di essere haitiani (e militanti) pur essendo nati altrove, mentre il violoncello in pizzicato dell’artista e la tanbou - una forma di percussione dell’isola - suonata da Jeff Pierre portano la traccia verso altezze siderali.

E allora, direte voi, perché un giudizio così tiepido a fronte di tante parole d’encomio? È presto detto. Siccome RootsHighway resta uno spazio di libertà, per chi ci scrive e spero anche per chi legge, dove esercitare, in pubblico, un po’ di pensiero laterale altrimenti silenziato dalle posizioni mainstream, mi pare giusto sottolineare, almeno in questa sede, come Breaking The Thermometer, benché formalmente irreprensibile, ceda sovente il passo all’elegia anziché alla rabbia, in apparenza ponendo la sopportazione davanti alla ribellione. E se non si può fare un processo alle intenzioni o ai sentimenti di Leyla McCalla, poiché ciascuno è libero di fare i dischi che vuole con il linguaggio che vuole, nemmeno sarebbe giusto nascondere sotto il tappeto i dubbi di chi, di fronte a un’opera simile, reputa quasi stridente la distanza tra il dolore e la problematicità degli argomenti trattati, da un lato, e la compassata ricercatezza della loro confezione sonora dall’altro, spesso tanto perfetta, disciplinata, contegnosa e priva di spigoli da sembrare irreale, o perlomeno sedata a uso dei mezzi di comunicazione più refrattari all’ambiguità e al disordine.

Oppure c’è un’altra ipotesi, e cioè che sia lo scrivente, rimbambito dall’età, a non saper più distinguere il grano dal lòglio. Tuttavia, senza scomodare il Charlie Mingus martellante, populista e frenetico di Haitian Fight Song (stava, per chi se la ricorda, su The Clown del ’57), se penso alle canzoni di protesta più efficaci degli ultimi trent’anni, mi vengono in mente i lavori di John Trudell, We Can’t Make It Here di James McMurtry, Road To Peace di Tom Waits, We’ll Never Turn Back di Mavis Staples, i dischi dei Drive-By Truckers o quelli dei Defiance, Ohio. Tutte cose dove il sangue, il sudore e le lacrime si sentivano. Eccome.


    



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