Figlia del Queens newyorchese,
ma di origini antillane essendo il padre uno storico attivista per i diritti
del popolo di Haiti e la madre la primogenita di un ex-direttore del quotidiano
socialista dell’isola, Leyla McCalla ha fatto della contestazione
alla sedentarietà una ragione di vita. Tanto da andarsene, adolescente,
in New Jersey, tornare poi a NY per studiare (all’università) la musica
da camera, nonché approdondire l’amato violoncello e gli altri strumenti
da lei prediletti (banjo e chitarra, soprattutto), passare inoltre qualche
anno nelle strade di Accra, la capitale del Ghana, e trasferirsi infine
a New Orleans, attratta dal multilinguismo cittadino e dalla cospicua
presenza, nel Quartiere Francese, di artisti di strada in piena attività.
Non solo, perché dopo aver fatto parte, con Rhiannon Giddens, dei Carolina
Chocolate Drops, e averne di nuovo incrociato i passi nell’esperienza
tra ricerca etnica e suono delle radici di Songs
Of Our Native Daughters, McCalla ha dato vita a diversi lavori
solisti, ognuno riconducibile alle basi di un vero e proprio progetto:
se il primo Vari-Colored
Songs metteva in scena una variegata celebrazione della jazz-poetry
contenuta nelle liriche di Langston Hughes, afroamericano e comunista,
Breaking The Thermometer, oggi, prende le mosse da uno
spettacolo teatrale di Kiyoko McCrae commissionato, nel 2020, dalla Duke
University della Carolina del Nord, istituzione dov’è conservato l’archivio
di Radio Haiti-Inter, la prima radio indipendente dell’isola e la prima,
inoltre, a trasmettere in lingua creola anziché nel francese dei colonizzatori.
L’emittente ebbe una storia controversa e per nulla lineare, si trovò
a sperimentare l’aperta ostilità del regime del dittatore Jean-Claude
“Baby Doc” Duvalier (quindi le multiple chiusure imposte dagli emissari
di costui), e sembrò godere di maggior stabilità al ritorno del presidente
Jean-Bertrand Aristide - un sacerdote salesiano vicino alla teologia della
liberazione - in seguito al colpo di stato che ne aveva visto la deposizione
nel 1991, finché Jean Dominique, direttore e fondatore della radio, e
un suo dipendente non furono uccisi in un tentativo di occupazione dei
loro uffici (per chi volesse approfondire, si tratta della vicenda al
centro di The Agronomist [2003], un bel documentario del compianto
Jonathan Demme).
Immergendosi nella raccolta di documenti (alcuni analogici, altri digitali),
supporti fonografici, bobine e registrazioni poc’anzi citata, McCalla
ne ha tratto una sequenza travolgente di suoni e colori, suddivisa tra
rumori d’ambiente, brani d’epoca, vecchie incisioni dei programmi della
radio e composizioni autografe. Tra queste ultime spiccano per intensità
e riuscita il dolce folk caraibico di Vini Wé,
dedicata alla storia d’amore tra Dominique e sua moglie, la giornalista
Michele Montàs, e lasciata fluttuare sulle note morbide e schiumose della
chitarra classica di Nahum Johnson Zdybel, il febbrile violoncello della
titolare intento a far sanguinare il racconto d’esilio e fuga di Ekzile,
i delicati e ondeggianti arpeggi bluesy della dolente Fort Dimanche
(su di un famigerato carcere dell’epoca Duvalier). Tra le rivisitazioni,
impossibile non citare You Don’t Know Me,
appartenente al repertorio di Caetano Veloso (che l’aveva scritta nel
Regno Unito mezzo secolo fa, quand’era un esule anche lui) e riletta in
chiave decisamente rock, con tanto di roboante assolo di sei corde, e
Pouki, visionaria invettiva dell’artista isolano Manno Charlemagne
(cantata in coppia con la canadese Melissa Laveaux), il movimentato trattamento
folk-rock cui viene sottoposto lo standard Dondinin e, sopra a
tutto il resto, la memorabile poesia ambient dell’iniziale
Nan Fon Bwa, firmata da Frantz Casseus, chitarrista di Port-au-Prince
nonché maestro dello strumento per Marc Ribot (in senso letterale: gli
zii di quest’ultimo erano amici famiglia del musicista), e qui parafrasata
interpolando i rumori delle acque e i canti degli uccelli con una telefonata,
tra McCalla e sua madre, sull’orgoglio di essere haitiani (e militanti)
pur essendo nati altrove, mentre il violoncello in pizzicato dell’artista
e la tanbou - una forma di percussione dell’isola - suonata da Jeff Pierre
portano la traccia verso altezze siderali.
E allora, direte voi, perché un giudizio così tiepido a fronte di tante
parole d’encomio? È presto detto. Siccome RootsHighway resta uno spazio
di libertà, per chi ci scrive e spero anche per chi legge, dove esercitare,
in pubblico, un po’ di pensiero laterale altrimenti silenziato dalle posizioni
mainstream, mi pare giusto sottolineare, almeno in questa sede, come Breaking
The Thermometer, benché formalmente irreprensibile, ceda sovente
il passo all’elegia anziché alla rabbia, in apparenza ponendo la sopportazione
davanti alla ribellione. E se non si può fare un processo alle intenzioni
o ai sentimenti di Leyla McCalla, poiché ciascuno è libero di fare i dischi
che vuole con il linguaggio che vuole, nemmeno sarebbe giusto nascondere
sotto il tappeto i dubbi di chi, di fronte a un’opera simile, reputa quasi
stridente la distanza tra il dolore e la problematicità degli argomenti
trattati, da un lato, e la compassata ricercatezza della loro confezione
sonora dall’altro, spesso tanto perfetta, disciplinata, contegnosa e priva
di spigoli da sembrare irreale, o perlomeno sedata a uso dei mezzi di
comunicazione più refrattari all’ambiguità e al disordine.
Oppure c’è un’altra ipotesi, e cioè che sia lo scrivente, rimbambito dall’età,
a non saper più distinguere il grano dal lòglio. Tuttavia, senza scomodare
il Charlie Mingus martellante, populista e frenetico di Haitian Fight
Song (stava, per chi se la ricorda, su The Clown del ’57),
se penso alle canzoni di protesta più efficaci degli ultimi trent’anni,
mi vengono in mente i lavori di John Trudell, We Can’t Make It Here
di James McMurtry, Road To Peace di Tom Waits, We’ll Never Turn
Back di Mavis Staples, i dischi dei Drive-By Truckers o quelli dei
Defiance, Ohio. Tutte cose dove il sangue, il sudore e le lacrime si sentivano.
Eccome.