Scoperta
dai talent scount inglesi della Loose music, sempre a caccia di nuovi
talenti, durante una delle ultime edizioni del South by Southwest,
il famoso raduno musical/discografico di Austin, la texana Carson McHone
era apparsa timidamente sulla scena internazionale grazie al precedente
Carousel,
di fatto il primo disco a porla oltre i confini regionali (un esordio
nel 2015 pubblicato in totale autonomia). Una voce che non solo si andava
ad aggiungere alle già interessanti proposte dell’etichetta in ambito
di rappresentanti femminili dell’Americana (si veda Courtney Marie Andrews,
o più di recente la brillante rivelazione Margo
Cilker), ma che rimetteva in circolo un certo modo di intendere
la canzone roots d’autore più intima, tradizionalista e indipendente al
tempo stesso.
Le basi solide di partenza c’erano tutte, la personalità anche, mancava
ancora un po’ di ambizione per uscire dal guscio protettivo delle sue
radici honky tonk e alternative country, per non sembrare insomma una
delle tante. Still Life è esattamente il disco che potrebbe
avviare un altro percorso per la giovane Carson, una biografia la sua
che sa di provincia e romanzi da West americano, un po' Larry Watson un
po' Ivan Doig, lontano un miglio: barista con un sogno in tasca, cameriera
che da dietro il bancone si è fatta spazio fino ad arrivare sotto i riflettori
del palco. Il punto di svolta è rappresentato dall’incontro artistico
con il funambolo rock canadese Daniel Romano, che ha portato Carson
McHone nei suoi studi di registrazione in Ontario, curando l’intera regia
musicale di Still Life, aggiungendovi le spezie delle sue chitarre
e chiamando in soccorso pochi fidati collaboratori, Mark Lalama all’accordion,
piano e organo, e David Nardi al sax. Lo slittamento di approccio e stile
è evidente fin dalla propulsiva Hawks Don’t Share,
con un rotolare folk rock e un soffio di fiati che offrono più colori
all’espressività di Carson McHone.
Definita una raccolta di storie che parlano di sabotaggio, confusione
e resa alla vita, Still Life conquista per la sua sottile esuberanza,
frutto certamente dei consigli di Romano, ma anche per l’interpretazione
della McHone, che si pone a metà strada fra le citate colleghe del vasto
sottobosco Americana e una bramosia pop che potrebbe spingerla nella direzione
di Aimee Mann o Natalie Merchant, se dovessimo proprio azzardare qualche
musa ispiratrice. Di sicuro c’è un’intera prima facciata che fa sbocciare
chitarre e melodia, accompagnandosi ai riverberi sixties e al finale pungente
ed elettrico della stessa title track, nell’aria più sbarazzina e quasi
power pop di una “costelliana” Someone Else,
tra il crescendo di tensioni e armonia di Spoil on the Vine, mentre
nel mezzo si colloca il valzer per accordion e luna texana di Fingernail
Moon, sempre sorretto da un uso intelligente delle voci (spesso
la stessa Carson raddoppiata) e degli interventi della sei corde solista.
Qui e altrove, ancora una volta, è inutile nascondere l’abilità di Daniel
Romano nel trovare sempre il mood giusto, la nota e l’arrangiamento perfetti
per esaltare il tono confessionale di Carson, che assume il suo ruolo
con la richiesta eleganza (la pianistica Sweet Magnolia, dolcemente
cullata dagli archi), si concede alle eccentricità del produttore (la
sottilmente retromaniaca Only Lovers), riprende una quota di raffinata
chanteuse (End of the World, il finale introspettivo e folkie di
Tried) e più in generale si concede un secondo tempo di Still
Life in cui acustico ed elettrico dialogano con parsimonia ed equilibrio,
mostrandone il volto più elegiaco della scrittura.
La sintesi è anche il gioiello della collezione e si intitola Folk
Song, a confermare la semplicità d’animo dell’autrice: l’atmosfera
si fa un’altra volta dolcemente sixties e quando entra in scena la chitarra
elettrica, gli effluvi californiani da morbida psichedelia ne rappresentano
l’ideale completamento.