Ci fu un breve momento,
a cavallo tra i due decenni scorsi, in cui i Midlake poterono sembrare
(e di fatto sono sembrati, a più d’uno di noi) una facile scommessa sul
futuro dell’indie americano, oltre che rappresentare un presente intrigante.
Intelligenti senza apparire spocchiosi o cerebrali, rispettosi del passato
senza cadere preda della tentazione di una deriva citazionista postmoderna
o, all’opposto, del facile revivalismo, hanno infilato una doppietta di
album (The Trials of Van Occupanther e The
Courage of Others) che, in modo diverso e complementare, annunciavano
l’esistenza di una dimensione spaziotemporale in cui Fleetwood Mac e Fleet
Foxes, Okkervil River e Fairport Convention riuscivano felicemente a coesistere.
L’abbandono improvviso e improvvido del cantante Tim Smith (de facto il
frontman della band) aveva, proprio sul più bello, lasciato il resto della
ciurma e leccarsi le ferite e a interrogarsi sul futuro. La risposta è
arrivata con un disco, Antiphon, che cercava di prendere tempo
alzando il volume delle chitarre e lasciandosi dirottare da qualche seduzione
prog di troppo.
Il classico lavoro di transizione, insomma. Se non fosse che, dopo nove
anni, ben pochi ormai potevano immaginare che quella transizione portasse
ancora da qualche parte. Invece, il quinto album dei Midlake è realtà:
pubblicato sulla coda di questo inverno, è la testimonianza di una volontà
di sopravvivenza inaspettata e benemerita. Come i Blues Brothers, i Midlake
hanno “visto la luce”: il flautista/tastierista Jesse Chandler racconta
di come il padre recentemente scomparso gli sia apparso in sogno per esortarlo
a “rimettere insieme la band”. Un aneddoto che trova riflesso nella copertina
del disco, dove appare un fotogramma dal celebre docufilm sul festival
di Woodstock che raffigura proprio il padre di Chandler da ragazzo, immortalato
tra il pubblico della “tre giorni di pace amore e musica”. Allo spirito
di Bethel Woods, dunque (il luogo cioè dove sorge il memoriale del festival),
è consacrato il ritorno dei Midlake. Non aspettatevi una nostalgia d’accatto,
però. La band di Denton, Texas ha l’intelligenza di servirsi della suggestione
non per celebrare alcunché ma per interrogarsi su quanto sia difficile
far sopravvivere quell’idea di comunità, di fratellanza, nel presente.
Nel brano d’apertura, Commune, Eric
Pulido (colui che ha sostituito alla voce il transfuga Smith) confessa
di “essere stato via troppo a lungo, solo e perduto senza una comunità”,
e nel brano finale, Of Desire, arriva
alla conclusione che “ci stiamo lavorando, ma il tempo può davvero giocarci
qualche brutto tiro”. E’ chiaro il filo rosso che lega le canzoni attorno
a questo realismo nutrito di speranza, ma il concept di per sé non funzionerebbe
se le canzoni non fossero all’altezza, e per fortuna lo sono. Le suggestioni
seventies ritrovano una dimensione organica, un piglio diretto (il folk
rock muscolare di Bethel Woods, il garage rock travestito di psichedelica
di Exile, la bucolicità sospesa di Feast
of Carrion, il classicismo beatlesiano di The End…)
che assorbe senza sforzo quel quid di eccentricità che ha distinto le
canzoni migliori della band anche in passato (la poliritmia quasi new
wave di Glistening, lo space-rock
alla moviola di Noble, le collisioni jazz del piano in Gone,
le spirali liquide delle tastiere in Meanwhile…). In un certo senso,
questa è la vera continuazione di The Courage of Others: il passato
diventa punto di partenza per guardare oltre e ritrovare lo spirito di
gruppo e il senso d’appartenenza. Prima di ascoltare For the Sake
of Bethel Woods ancora non lo sapevamo, ma i Midlake ci erano
mancati.