Defiance Part 1
è un atto di disobbedienza, una sfida, appunto, in nome del rock’n’roll
e di una presunta giovinezza che non dovrebbe contemplare la presenza
di un uomo di quasi ottantaquattro anni (84!) al centro della scena. Un’iconografia
classica che insiste nel portarsi dietro molti luoghi comuni e soprattutto
poco senso della realtà, adesso che la storia ha fatto il suo corso, le
rock star sono tutte invecchiate e quella stessa musica non è più (da
tanto tempo) il motore della ribellione adolescenziale, semmai un grande
fiume che scorre tra passato e presente, passandosi il testimone della
memoria.
Ecco allora che anche Ian Hunter può rientrare in gioco, con tutte
la rivendicazioni del caso per un artista che ha mantenuto una freschezza
di intenti e una credibilità assai più solida di tanti celebrati colleghi:
sarà per questo motivo che, recluso dalla pandemia in un piccolo studio
con il fedele Andy York (chitarre, suoni e idee assortite) ha lanciato
un messaggio al mondo e ai numerosi ammiratori sparsi nel music business,
raccogliendo adesioni immediate e alcune anche inattese, mettendo insieme
un cast di autentiche "prime donne" da fare invidia all’intero
ambiente del rock. Perché di questo si tratta nel caso di Defiance
Part 1, dieci canzoni che annunciano anche un secondo tempo (il secondo
atto pare che sarà più “politico” nei toni, così promette Ian), concentrate
su quel suono rock urbano, tra ballate romantiche e sferzate hard, che
dai Mott the Hoople si è riversato nella carriera solista di Hunter.
Scorrere l’elenco dei partecipanti terminerebbe lo spazio qui a disposizione,
ma risulterebbe persino fuorviante rispetto a un album che si misura soprattutto
con la stessa storia personale del protagonista (e aggiungeteci anche
quel solleticare il mito, a cominciare da un marchio, Sun records, che
viene rispolverato in copertina), voce inevitabilmente segnata dall’età,
ma sorretta e attorniata con intelligenza dai contributi dei singoli.
Si parte così con lo sferragliare un poco gradasso di Slash, ospite
nel manifesto di Defiance, e si approda alla batteria di Ringo
Starr e alle chitarre di Mike Campbell nel primo singolo, dal tono sentimentale
e innocentemente nostalgico, di Bed of Roses,
quintessenza della ballata alla Ian Hunter: rappresentano a grandi linee
i due poli stilitici del disco, lontano dall’intensità matura di lavori
quali Shrunken
Heads e Man
Overboard (per chi scrive il miglior Ian Hunter degli anni
Duemila), più incline invece all’istinto, all’invettiva e anche al divertimento,
come reazione naturale alle costrizioni del periodo pandemico.
Ne risulta una manciata di brani che difficilmente sarà ricordata come
una “pietra miliare” della carriera di Ian Hunter, come provano a farci
credere (con giustificato entusiasmo, per carità) le note stampa,
eppure dall’esito sorprendente, se si considera quel numero 84 sulle spalle,
capace di annullarsi nella sacra passione rock’n’roll che sprigiona
Pavlov’s Dog (con la presenza di membri
degli Stone Temple Pilots), nel saltellare pianistico di un a I Hate
Hate, che pare ritornare alla forza dei lavori di fine anni Settanta
del nostro, o ancora nel finale commemorativo di This
Is What I’m Here For, una delle tracce (le altre sono Angel
e Kiss N’ Make Up, sebbene tra le meno convincenti, va detto) in
cui compare la batteria dello scomparso Taylor Hawkins dei Foo Fighters.
Come Jeff Beck peraltro, in una delle sue ultime apparizioni ufficiali,
qui sollecitata dall’amico di scorribande Johnny Depp: sono presenze che
sembrano accrescere il valore simbolico di un album che ha il sapore di
una resistenza in piena regola. Ian Hunter non molla l’osso e quando si
ricorda di possedere ancora quel “sacro fuoco” che brucia dentro il suo
songwriting, allora trova davvero il tempo di sfoderare una ballata da
manuale: si intitola Guernica, e in
tempi grigi di nuovi conflitti e bombe sulla testa della gente acquista
ancora più potenza.