Dalle grandi pianure del
Saskatchewan dritto al cuore della vecchia America, Colter Wall non
molla di un centimetro la presa sulla sua integrità musicale, a costo
di sembrare uno scherzo anacronistico della storia. È la sua voce, quella
voce, densa e antica come il mondo, nonostante si tratti di un ventottenne
canadese, oltre alla convizione palpabile in ciò che canta, a scacciare
ogni dubbio: Colter Wall le canzoni le vive sulla propria pelle e intonando
il blues del cowboy racconta un’esistenza e un tormento più universali,
lui che comunque non ha mai nascosto l’amore per il lavoro nei ranch,
rapito da un immaginario naturalistico.
La differenza questa volta la fanno i musicisti della band che lo circonda,
con un suono che aveva già cominciato a “ingrossarsi” negli album precedenti
e che oggi in Little Songs, quarto album sulla distanza,
si presenta definitivamente più esuberante, a tratti rigoglioso, senza
dubbio ricco di dettagli in confronto all’asciutta poesia acustica che
lo aveva rivelato al mondo con il suo esordio. Nel passaggio si perde,
va detto, molto del fascino da “mondo antico” e quell'epica da cavaliere
solitario che emergeva in passato come ci trovassimo in un romanzo di
Cormac McCarthy, rendendo così qualche episodio di Little Songs
più prosaico (l’honky tonk al trotto di Standing Here, o la stessa
title track), agganciato a certi inevitabili luoghi comuni del genere,
mentre lo spirito più puro di Colter continua a brillare di luce propria
quando gli arrangiamenti si fanno acustici, raccolti, capaci di esaltare
l’anima del troubadour (la distanza richiamata in For
a Long While, una accorata Coralling
the Blues, il finale da bivacco di The Last Loving Words,
con quelle note di armonica a spegnere le ultime braci del fuoco).
Brani nati in gran parte negli ultimi tre anni, quelli che distanziano
il qui presente lavoro da Western
Swing & Waltzes and Other Punchy Songs, composti in solitudine e poi
rielaborati con la guida del produttore e polistrimentista Patrick Lyons.
È quest’ultimo, insieme al soffio dell’armonica di Jake Grows e al fiddle
di Doug Moreland a suggerire i movimenti più sussultori di questo Little
Songs, un disco che sembra figlio del Johnny Cash che cantava le ballate
del “True West” o del Marty Robbins alle prese con i duelli delle “Gunfighter
Songs”, qualche volta lambendo i fantasmi di Hank Williams (sebbene andrebbe
citato un altro Hank, Snow, viste le origini canadesi di Colter) e di
tutta una generazione di padri fondatori della country music.
Lì risiede il pozzo dal quale attingere le acque che irrorano il terreno
musicale di Little Songs, da uno stile di canto che in Cow/
Calf Blue Yodel pare persino giungere ai primordi di Jimmie Rodgers
e che nella stessa scelta delle due cover in scaletta – il racconto di
The Coyote & the Cowboy di Ian Tyson
e i fremiti dal border messicano di Evangelina di Hoyt Axton –
svela un innamoramento sincero che non lascia alcuna ambiguità sul personaggio
e la missione che si è dato.