Figli prediletti di Raleigh,
North Carolina, vent’anni o quasi di carriera alle spalle che hanno comunque
contribuito ad allargare la base dei loro estimatori, diventando una delle
band più rispettate del circuito roots rock nazionale, gli American
Aquarium sono sempre stati, senza infingimenti, un’estensione del
songwriting di BJ Barham, punto di riferimento insostituibile all’interno
di un gruppo che nel tempo ha cambiato spesso fisionomia. Per tale motivo
il precedente album, Chicamacomico,
curioso nome che prendeva spunto dai luoghi nativi del musicista, sembrava
il “grado zero” della band, un disco in prevalenza acustico e molto personale
che diventava una cosa sola con i ricordi e l’esperienza di vita di Barham
stesso, per giunta concepito in un clima da post pandemia che ne accentuava
gli aspetti intimi.
The Fear of Standing Still è qui per smentire tutto, ribaltare
il tavolo e tornare all’energia elettrica che ha dato vita all’avventura
degli American Aquarium, restituendo la sensazione di una vera rock’n’roll
band che spintona alle spalle del leader. Giocano nello stesso campionato
di Lucero e Drive-By Truckers questi ragazzi, anche se non hanno raccolto
gli stessi onori: nelle canzoni di The Fear of Standing Still mostrano
un’anima alternative country e un cuore rock, aprendo con il fragore punk
di Crier, un brano per cui i Gaslight
Anthem farebbero carte false, se avessero ancora questa ispirazione, e
chiudendo con il baldanzoso boogie sudista di Head Down, Feet Moving,
già pronta a fare proseliti dal vivo.
Registrato e prodotto a Los Angels, presso il famoso Sunset Sound studio,
sotto la regia dell’amico Shooter Jennings (che aveva già lavorato
con la band in Lamentations)
The Fear of Standing Still è l’album più ispirato e diretto degli
American Aquarium dai tempi del celebrato Burn.Flicker.Die (frutto
della collaborazione con Jason isbell), avendo trovato l’equilibrio perfetto
fra gli impulsi rock urbani e romantici e la scrittura country e narrativa
di Barham. Quest’ultimo si lancia tra riflessioni da padre di famiglia
che ha lasciato definitivamente alle spalle i suoi demoni e ricognizioni
sociali sull’America di oggi, trovando la sintesi ideale del suono che
ha in testa con la ballata tra alt-country e heartland rock di Messy
As a Magnolia, o ancora attraverso la dolcezza rootsy di Cherokee
Purples e The Curse of Growing Old e il battito da gang di
strada di The Getting Home, altro episodio fra il New Jersey di
Springsteen e il domestico abbraccio della North Carolina.
Il duetto con Katie Pruitt in Southern Roots
avvia una riflessione franca sulle proprie origini e l'eterna
“questione sudista”, provando a scavare tra identità e pregiudizi che
tornano ciclicamente a galla, mentre la tenera poetica di
Babies Having babies affronta il tema quanto mai attuale del
diritto di scelta della donna, in un paese che sembra fare pericolosamente
retromarcia nel segno dell’oscurantismo più fondamentalista.
BJ Barham e compagni (da citare almeno le chitarre di Shane Boeker e la
pedal-steel di Neil Jones) si scrollano di dosso l’apatia di qualche anno
buio e rimettono gli stivali sull'asfalto bollente della strada, riprendendo
i fili di un roots rock che guarda alle emozioni e al senso comunitario:
centro pieno!