Nella mia
mente esiste un filo diretto e conduttore fra tre nomi come Conor Oberst
(Bright Eyes), Colin Meloy (Decemberists) e Will Sheff (Okkervil River),
artisti in verità con pochi contatti reali tra loro. Ma oltre alla piena
contemporaneità della loro storia artistica, quello che ai miei occhi
li accomuna è lo stesso medesimo approccio che hanno avuto verso il folk,
o “indie-folk” si diceva ai tempi dei loro esordi di fine anni ‘90, visto
che poi le loro rispettive band negli anni Zero hanno pubblicato i migliori
dischi di un genere tutto loro in cui si univano alla perfezione tradizione
e autorialità stramba e non categorizzabile.
Nel 2024 possiamo dire che Will Sheff dei tre è stato sicuramente il più
continuo e coerente rispetto al suo credo musicale, Meloy invece, dopo
aver sperimentato anche parecchio, si è poi trincerato coi suoi Decemberists
in ua folk-rock più rassicurante e a colpo sicuro, con cui ha comunque
pubblicato dischi più che notevoli (vedi il recente As
It Ever Was, So It Will Be Again per esempio ). Conor Oberst, che
forse dei tre era considerato l’enfant prodige, è quello che si è perso
un po’, quello che non ha saputo tenere ben salde le briglie della propria
straripante creatività. E paradossalmente quello che ha sacrificato di
più la propria band, i Bright Eyes, a nome di una carriera solista,
interessante quanto confusa, che di fatto non è mai decollata a dovere.
E il fatto che molti suoi titoli solisti siano stati decisamente meglio
dei due album usciti a nome Bright Eyes dal 2008 ad oggi (The People's
Key nel 2011 e Down
in the Weeds, Where the World Once Was 2020) fa capire come mai questo
Five Dice, All Threes sia già stato ovunque salutato come
una sorpresa, se non proprio addirittura un “ritorno”, nonostante siano
passati solo quattro anni dal suo predecessore.
La ragione la potete capire anche solo al primo ascolto: Oberst qui si
è concentrato a scrivere grandi canzoni, ben costruite e con testi ben
studiati, e le ha prodotte ritornando a mettere il folk al centro, ma
senza disdegnare tutto quanto ha sperimentato in questi anni, usato finalmente
con criterio e senso della misura. Il risultato è che il disco è finalmente
il mai arrivato seguito di Cassadaga, l’album con cui aveva abbracciato
anche più che idealmente l’elaborato folk dei colleghi Meloy e Sheff,
riuscendo peraltro benissimo nell’impresa.
La band, se così si può chiamare, è un trio di factotum che oltre a lui
vede il grande guru della scena musical di Omaha Mike Mogis (ha lo studio
di produzione più importante della città, e dalle sue produzioni sono
partiti molti artisti della sua zona) e il fido pianista Nate Walcott.
La lista degli ospiti e session-men è comunque lunga, ma ovviamente spiccano
i contributi di Cat Power nella davvero splendida All
Threes e Matt Berninger dei National in The Time I Have
Left. Ma, a parte i credits colorati, il disco convince perché sa
essere scanzonato (il toy-piano di Bas Jan Ader,
una delle collaborazioni più convincenti con l’artista Alex Orange Drink,
il fischio divertito di Bells and Whistles), riflessivo (Tiny
Suicides pare quasi uno dei brani dei Pink Floyd più malinconici e
acustici) o in vena di provare nuove soluzioni (il finale tex-mex dell’ottima
El Capitan, questa si una canzone che Meloy gli ruberebbe volentieri).
Insomma, pur senza forse arrivare a giustificare la parola genio che qualcuno
spese per Oberst agli inizi della sua carriera, Five Dice, All Threes
ha tutta l’aria di essere quel punto fondamentale di recuperata affidabilità
anche per il futuro.