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T Bone Burnett
The Other Side
[Verve 2024]

Sulla rete: tboneburnett.com

File Under: ghostly folk songs


di Fabio Cerbone (02/05/2024)

Figura chiave dietro il rinascimento della roots music americana dagli anni Duemila in avanti (vi dice qualcosa la colonna sonora di O Brother Where Art Thou?), intelligenza “occulta” nella costruzione di un suono riconoscibile in tutte le produzioni da lui curate, anche in ambiti rock, T Bone Burnett correva il rischio di far dimenticare a molti le sue origini e le qualità di autore, con una propria carriera solista, sebbene centellinata nelle uscite e sempre molto ondivaga.

Per questo motivo è ancora più gradita la pubblicazione di The Other Side, a conti fatti il primo vero album di canzoni da diversi anni a questa parte per il songwriter texano: escluse, infatti, alcune collaborazioni per cinema e teatro (da ricordare almeno quella in trio con Stephen King e John Mellencamp) e progetti di natura decisamente più sperimentale (i recenti episodi passati sotto il titolo di The Invisible Light, nelle intenzioni di Burnett una trilogia non ancora completata), era da Tooth of Crime del 2008 che il nostro Joseph Henry "T Bone" Burnett III  non dava segnali di una scrittura musicale che recuperasse il suo lato, per così dire, più “convenzionale”.

Ci pensa l’austerità acustica e l’intima dimensione folk di questo album, concepito dopo un’illuminazione dettata dall’acquisto di qualche nuova fiammante chitarra, così racconta lo stesso Burnett, mettendo da parte altre idee e concentrandosi soltanto sull’anima delle canzoni. Tre settimane di tempo, non molto di più, per dare respiro, è proprio il caso di dirlo, alle ballate disadorne e ai bozzetti roots di The Other Side, disco che rimanda all’asciuttezza dell’omonimo album acustico del lontano 1986 o ancora alla densità autoriale del capolavoro The Criminal Under My Own Hat, ma con il peso degli anni sulle spalle (sono 76 per il nostro) e di una visione cristiana e spirituale dell’umanità e dell’amore che influenza l’intera scaletta.

Si parte con l’afflato religioso di He Came Down, giusto per ricordare l’essenziale fede che alimenta da sempre il songwriting di T Bone Burnett e ci si addentra in un viaggio pacifico e dolente al tempo stesso dove la voce sussurrata del protagonista è accompagnata da poche essenziali note offerte dalle chitarre (quelle dello stesso Burnett e di Colin Linden), dal contrabbasso (Dennis Crouch) e dalle voci di contorno delle Lucius, spesso a fare da cassa di risonanza alle emozioni dell’autore. L’effetto è quello di un “sermone” domestico, richiedendo silenzio, accuratezza, disponibilità d’animo ad accogliere i languori country folk di Come Back (When You Go Away), le dolci, acustiche litanie di Waiting for You e quelle estatiche di una The Race Is Won che si candida immediatamente tra gli episodi più singolari e seducenti della raccolta.

Nulla qui è pensato per agganciare l’ascoltatore con trucchi di facile presa, tutto semmai galleggia in un grande fiume di american music ripassata al setaccio con la sensibilità e il contegno del T Bone Burnett musicista e produttore: c’è il fantasma di Johnny cash (e la presenza della figlia Rosanne ai cori sembra confermarlo) nei teneri sobbalzi di (I'm Gonna Get Over This) Some Day, le ombre del Vecchio Sud nel battito afflitto del southern gospel in The Pain of Love e in quello più subodolo del blues rurale in Sometimes I Wonder, mentre Hawaiian Blue Song, con ospite l’amico di scorribande di un tempo Stephen Soles, ondeggia lungo il confine messicano, The First Light of Day e Everything and Nothing accennano teneri passi di valzer di altre epoche, The Town That Time Forgot si fa gotica nel suo spettrale folk e Litte, Darling chiude con un abbraccio country d’antan.

Un album che suona solo apparentemente “antico”, ma il cui obiettivo consapevole sembra piuttosto quello di collocarsi fuori del tempo, lì dove stazionano i classici.


    



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