Figura chiave dietro il rinascimento
della roots music americana dagli anni Duemila in avanti (vi dice qualcosa
la colonna sonora di O Brother Where Art Thou?), intelligenza “occulta”
nella costruzione di un suono riconoscibile in tutte le produzioni da
lui curate, anche in ambiti rock, T Bone Burnett correva il rischio
di far dimenticare a molti le sue origini e le qualità di autore, con
una propria carriera solista, sebbene centellinata nelle uscite e sempre
molto ondivaga.
Per questo motivo è ancora più gradita la pubblicazione di The Other
Side, a conti fatti il primo vero album di canzoni da diversi
anni a questa parte per il songwriter texano: escluse, infatti, alcune
collaborazioni per cinema e teatro (da ricordare almeno quella in trio
con Stephen King e John Mellencamp) e progetti di natura decisamente più
sperimentale (i recenti episodi passati sotto il titolo di The Invisible
Light, nelle intenzioni di Burnett una trilogia non ancora completata),
era da Tooth of Crime del 2008 che il nostro Joseph Henry "T Bone" Burnett
III non dava segnali di una scrittura musicale che recuperasse il suo
lato, per così dire, più “convenzionale”.
Ci pensa l’austerità acustica e l’intima dimensione folk di questo album,
concepito dopo un’illuminazione dettata dall’acquisto di qualche nuova
fiammante chitarra, così racconta lo stesso Burnett, mettendo da parte
altre idee e concentrandosi soltanto sull’anima delle canzoni. Tre settimane
di tempo, non molto di più, per dare respiro, è proprio il caso di dirlo,
alle ballate disadorne e ai bozzetti roots di The Other Side, disco
che rimanda all’asciuttezza dell’omonimo album acustico del lontano 1986
o ancora alla densità autoriale del capolavoro The Criminal Under My
Own Hat, ma con il peso degli anni sulle spalle (sono 76 per il nostro)
e di una visione cristiana e spirituale dell’umanità e dell’amore che
influenza l’intera scaletta.
Si parte con l’afflato religioso di He Came Down,
giusto per ricordare l’essenziale fede che alimenta da sempre il songwriting
di T Bone Burnett e ci si addentra in un viaggio pacifico e dolente al
tempo stesso dove la voce sussurrata del protagonista è accompagnata da
poche essenziali note offerte dalle chitarre (quelle dello stesso Burnett
e di Colin Linden), dal contrabbasso (Dennis Crouch) e dalle voci di contorno
delle Lucius, spesso a fare da cassa di risonanza alle emozioni
dell’autore. L’effetto è quello di un “sermone” domestico, richiedendo
silenzio, accuratezza, disponibilità d’animo ad accogliere i languori
country folk di Come Back (When You Go Away), le dolci, acustiche
litanie di Waiting for You e quelle estatiche di una The
Race Is Won che si candida immediatamente tra gli episodi più
singolari e seducenti della raccolta.
Nulla qui è pensato per agganciare l’ascoltatore con trucchi di facile
presa, tutto semmai galleggia in un grande fiume di american music ripassata
al setaccio con la sensibilità e il contegno del T Bone Burnett musicista
e produttore: c’è il fantasma di Johnny cash (e la presenza della figlia
Rosanne ai cori sembra confermarlo) nei teneri sobbalzi di (I'm
Gonna Get Over This) Some Day, le ombre del Vecchio Sud nel
battito afflitto del southern gospel in The Pain of Love e in quello
più subodolo del blues rurale in Sometimes I Wonder, mentre Hawaiian
Blue Song, con ospite l’amico di scorribande di un tempo Stephen
Soles, ondeggia lungo il confine messicano, The First Light of Day
e Everything and Nothing accennano teneri passi di valzer di
altre epoche, The Town That Time Forgot si fa gotica nel suo spettrale
folk e Litte, Darling chiude con un abbraccio country d’antan.
Un album che suona solo apparentemente “antico”, ma il cui obiettivo consapevole
sembra piuttosto quello di collocarsi fuori del tempo, lì dove
stazionano i classici.