Folksinger alla vecchia maniera,
poeta, attivista, cantore di un american dream al contrario, che
racconta il paese partendo dal basso, dalla gente comune, dai desideri
infranti e dal dolore, ma anche dall’amore che li può riscattare, Willi
Carlisle è un personaggio interessante sul proscenio dell’Americana
di queste stagioni, per il suo rigore acustico, la fedeltà a un canone
country folk che richiama i fantasmi di Utah Phillips, Pete Seeger o Ramblin’
Jack Elliott, ma li cala nella realtà americana di oggi, frammentata,
ferita, bisognosa di trovare un senso di comunità. Le “creature” di cui
va cantando Carlisle nel suo nuovo album, Critterland, terzo
in carriera per questo ragazzone del Midwest ed esordio in casa Signature
Sound, sono il frutto di storie autobiografiche nonché di incontri avvenuti
lungo la sua esistenza di musicista itinerante, questa volta affiancato
dalla produzione e dal contributo strumentale di Darrell Scott, nome importante
della scena country d’autore di Nashville.
Fondato quasi esclusivamente sul binomio fra i due musicisti, che maneggiano
ogni possibile strumento a corda (chitarre, banjo, mandolino, lap steel...)
e vi aggiungono i sapori appalachiani e old time di violino, dulcimer
e armonica, Critterland è devoto dalla prima all’ultima nota alle
ambientazioni fuori tempo di una roots music basata sulla memoria dell’America
rurale, ma non scade nel revival fine a se stesso né tanto meno nella
nostalgia edulcorata di un passato mitizzato, per via della tensione dei
testi e dell’interpretazione di Carlisle stesso, outsider per natura e
marginale per scelta.
Capace di affrontare temi “scabrosi” e poco frequentati dai suoi colleghi,
come l’identità sessuale e il proprio scomodo posto nel mondo (la stessa
Critterland), la tossicodipendenza (la dolcezza melodica giocata
per contrasto di When the Pills Wear Off),
le storture generate dal capitalismo più disumano (una rivelatrice The
Great Depression, o ancora il recital finale di una veemente The
Money Grows on Trees), Willie Carlisle li affianca e “stempera” attraverso
la sofferenza e il ricordo personale, dal richiamo del padre in
The Arrangements, all’attaccamento per la vita agreste e
semplice in Dry Country Dust. Nel mezzo, a conferma della formazione
colta e popolare al tempo stesso dell’autore, c’è anche spazio per la
traduzione in musica di una lirica della poetessa Laura Gilpin, che qui
assume la forma di una essenziale folk song appalachiana, per voce e accordion,
in Two-Headed Lamb.
Non è l’unico episodio dell’album che si affida a questa asciuttezza sonora,
mai tralasciando però una coralità tipica di certe anticaglie folk: il
fiddle che innalza il canto d’orgoglio e consapevolezza personale di I
Want No Children, roba che pare uscire da qualche raccolta
di field recordings degli anni Venti del Diciannovesimo secolo, mentre
tutto intorno Darrell Scott ricama e sottolinea quando necessario la burbera
forma del racconto di Carlisle con le tinte country cristalline di Higher
Lonesome e quelle più inclini alla gioia del bluegrass in Jaybird.
Paesaggio, storie e sentimenti collettivi si intrecciano in Critterland,
logico seguito del suo predecessore Peculiar,
Missouri e di una carriera tutta, quella di Carlisle, che sembra costruita
fin qui con disarmante chiarezza artistica.