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Kiely Connell
My Own Company
[Calumet Queen/ Goodfellas 2024]

Sulla rete: kielyconnellmusic.com

File Under: country-rock chanteuse


di Fabio Cerbone (01/08/2024)

Innazitutto la voce, potente, caricata di un tono drammatico, vera nell’accezione che certa country music ha sempre dato alla questione, three chords and the truth, soprattutto quando si ha che fare con una musicista sbucata dal nulla americano. Kiely Connell è cresciuta in piena “Rust Belt”, al confine tra Indiana e Illinois, nella cittadina di Hammond sulle rive del lago Michigan. Dall’altra parte la grande Chicago, ma lei, come tutte le colleghe dalla notte dei tempi, ha preferito fare i bagagli in direzione Nashville, approdo obbligato per chi scrive ballate Americana con un tono tra la Lucinda Williams più elettrica degli anni Novanta e la prima, roboante Brandi Carlile non ancora rapita del tutto dal pop d’autore.

Nel mezzo c’è Kiely e questo suo secondo convincente album, My Own Company, che ha tutta l’aria di essere il disco che farà saltare il banco, o altrimenti le toccheranno altre stagioni nell’ombra di qualche locale dell'altra Nashville. Il produttore è quello gusto, Tucker Martine, con la sensibilità per cogliere le radici della Connell e al tempo stesso renderle appetibili per un pubblico più vasto, mentre nella band di studio fanno la loro comparsa il basso di Nate Query (The Decembrists), la batteria di Andrew Borger (Tom Waits, Norah Jones) e le chitarre di Drew Kohl, quest’ultimo già al fianco della protagonista nel suo esordio del 2021, Calumet Queen.

La compattezza e la linearità del sound di My Own Company è esattamente uno dei tratti vincenti, dallo srotolarsi roots rock di una Through to You che pare una Drunken Angel (Lucinda, sempre lei l'inevitabile termine di confronto per le giovani leve) aggiornata al 2024, fino all’intensità dark di Restless Bones, in ricordo di un amico morto suicida negli anni del liceo. E i risvolti scuri e schietti delle liriche sono l’altro peso sul piatto della bilancia: Kiely Connell dihiara il suo amore per certa letteratura romantica e crepuscolare, da Poe a Baudelaire, ma fuori dalle solite ardite comparazioni tipiche delle cartelle stampa e restando con i piedi per terra, potremmo semplicemente scomodare un songwriting che affronta a viso aperto le sberle riservate dalla vita, la condizione umana e la salute mentale, dalla prospettiva di una giovane donna americana, poco più che trentenne, che non nasconde certa fierezza femminista sin dalla scelta del primo singolo, l’esplosivo heartland rock di Damn Hands, o rivendica le sue origini da prodonfo Midwest americano nella gemella On the Mend, altra sferzata elettrica.

Ciò che resta alterna ballate country rock dall’eco western come Hobo’s Dream e la stessa, agrodolce e liquorosa My Own Company ad altre più cadenzate e perfette per esaltare l’intensità dell’interprete, come testimoniano Beautiful, la pianistica You Won’t Notice It e la teatrale, vibrante Anesthesia. Per impatto, sintesi e forza musicale My Own Company è una delle sorprese di stagione dell’Americana, tanto quanto lo era stata lo scorso anno l’opera della collega Jaimie Wyatt, versante più soul. Un dato è certo: sempre di più le redini del genere sono in mano ad artiste donne.


    



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