Innazitutto
la voce, potente, caricata di un tono drammatico, vera nell’accezione
che certa country music ha sempre dato alla questione, three chords
and the truth, soprattutto quando si ha che fare con una musicista
sbucata dal nulla americano. Kiely Connell è cresciuta in piena
“Rust Belt”, al confine tra Indiana e Illinois, nella cittadina di Hammond
sulle rive del lago Michigan. Dall’altra parte la grande Chicago, ma lei,
come tutte le colleghe dalla notte dei tempi, ha preferito fare i bagagli
in direzione Nashville, approdo obbligato per chi scrive ballate Americana
con un tono tra la Lucinda Williams più elettrica degli anni Novanta e
la prima, roboante Brandi Carlile non ancora rapita del tutto dal pop
d’autore.
Nel mezzo c’è Kiely e questo suo secondo convincente album, My
Own Company, che ha tutta l’aria di essere il disco che farà saltare
il banco, o altrimenti le toccheranno altre stagioni nell’ombra di qualche
locale dell'altra Nashville. Il produttore è quello gusto, Tucker Martine,
con la sensibilità per cogliere le radici della Connell e al tempo stesso
renderle appetibili per un pubblico più vasto, mentre nella band di studio
fanno la loro comparsa il basso di Nate Query (The Decembrists), la batteria
di Andrew Borger (Tom Waits, Norah Jones) e le chitarre di Drew Kohl,
quest’ultimo già al fianco della protagonista nel suo esordio del 2021,
Calumet Queen.
La compattezza e la linearità del sound di My Own Company è esattamente
uno dei tratti vincenti, dallo srotolarsi roots rock di una Through
to You che pare una Drunken Angel (Lucinda, sempre lei
l'inevitabile termine di confronto per le giovani leve) aggiornata al
2024, fino all’intensità dark di Restless Bones,
in ricordo di un amico morto suicida negli anni del liceo. E i risvolti
scuri e schietti delle liriche sono l’altro peso sul piatto della bilancia:
Kiely Connell dihiara il suo amore per certa letteratura romantica e crepuscolare,
da Poe a Baudelaire, ma fuori dalle solite ardite comparazioni tipiche
delle cartelle stampa e restando con i piedi per terra, potremmo semplicemente
scomodare un songwriting che affronta a viso aperto le sberle riservate
dalla vita, la condizione umana e la salute mentale, dalla prospettiva
di una giovane donna americana, poco più che trentenne, che non nasconde
certa fierezza femminista sin dalla scelta del primo singolo, l’esplosivo
heartland rock di Damn Hands, o rivendica
le sue origini da prodonfo Midwest americano nella gemella On the Mend,
altra sferzata elettrica.
Ciò che resta alterna ballate country rock dall’eco western come Hobo’s
Dream e la stessa, agrodolce e liquorosa My Own Company
ad altre più cadenzate e perfette per esaltare l’intensità dell’interprete,
come testimoniano Beautiful, la pianistica You Won’t Notice
It e la teatrale, vibrante Anesthesia. Per impatto, sintesi
e forza musicale My Own Company è una delle sorprese di stagione
dell’Americana, tanto quanto lo era stata lo scorso anno l’opera della
collega Jaimie Wyatt,
versante più soul. Un dato è certo: sempre di più le redini
del genere sono in mano ad artiste donne.